8 luglio 2009

GOVERNANCE LOCALE :CERTEZZE DEMOCRATICHE O RISCHI DI ARBITRIO.


di Gianvito Mastroleo



La stagione politica contemporanea ritiene di poter fare a meno delle idee e delle culture, fra le altre, il socialismo riformista, cui per circa un secolo si è affidata, e con successo. la crescita e lo sviluppo della società italiana.


Fra l’altro si è completamente smesso di discutere, di studiare il tema delle Riforme istituzionali, il terreno sul quale si è misurato con particolare successo il riformismo italiano fra gli anni ’70 e ’80, con il non secondario, anzi il determinante apporto dei socialisti, la cui iniziativa per la Grande riforma Istituzionale, patrocinata da Craxi e dal gruppo dirigente che lo affiancava, fu pervicacemente ostacolata dall’opposizione, con la complicità di settori della stessa maggioranza di governo.


Eppure, con quel tema ancora oggi la contemporaneità politica deve fare i conti, chiamando il riformismo a svolgere il suo ruolo: nella fase del passaggio dalla liberal-democrazia moderna, a quella che va sotto il nome di post-democrazia, un sistema – per riprendere le tesi esposte di recente da Massimo Salvadori nel suo lavoro Democrazie senza democrazia Laterza 2009) – che interpreta il riformismo (che pure invoca) più come approccio pragmatico alla quotidianità, addirittura solo semantico. ai mutamenti, piuttosto che nella sua vera accezione di prassi di progresso non identificabile con il moderatismo.


Il nostro paese, non diversamente, ma certamente più di altri paesi europei, vive la fase di ridefinizione del suo modello democratico: e non solo nelle agenzie nazionali, Parlamento e Governo, Magistratura, grandi apparati dell’amministrazione pubblica, ma anche nel sistema di governo locale, là dove si percepisce con maggiore visibilità, essendo più prossimo e immediato, il rapporto tra cittadino e potere, dove il nesso tra domanda e offerta, tra bisogno individuale e risposta pubblica dovrebbe essere più immediato, talvolta drammaticamente più urgente, diversamente da quanto non sia tra cittadino elettore e suoi rappresentanti nelle istituzioni parlamentari.


La riforma in senso democratico dell’ordinamento locale, tradotta nella legge del 1990 che superava, la legislazione ereditata dalla destra liberale o fascista (Leggi rispettivamente del 1914 e 1934 su Comuni e Province), in attuazione sia pure ritardata del patto costituzionale antifascista, si deve alla cultura del riformismo democratico italiano (cattolico e socialista in particolare) che fu il risultato di anni di studi e di elaborazione di studiosi, dirigenti politici, parlamentari e governanti riformisti.


Un lavoro complesso e lungo di anni nei quali maturò la nuova cultura coerente con il moderno sistema liberal-democratico che ha presieduto il Paese fino ai primi anni ’90.


Fino al tempo, cioè, nel quale un grande terremoto politico sovvertì il sistema e nel quale le spinte dell’antipolitica e dell’emergenza r presiedettero la maggior parte delle decisioni adottate anche nelle sedi parlamentari che una volta distrutto l’incubatore, confliggevano con la cultura che aveva ispirato principi generali e istituti destinati ad essere sperimentati, e poi attuati, in quello stesso ambiente culturale e politico.


Un sistema liberal-democratico moderno poggia sull’equilibrio di alcuni fattori congiunti, il più incidente dei quali la democrazia dei partiti, una volta che questi, in particolare quelli si sinistra, avevano subito il processo definito della loro «parlamentarizzazione»: «i partiti con le loro basi elettorali, i comizi, i congressi, i comitati centrali, le correnti interne ufficializzate, la competizione dei dirigenti per conquistare e mantenere legittimazione e consenso, con i loro parlamentari e gli organi di governo costituivano lo snodo essenziale della vita democratica del paese».


La parlamentarizzazione dei partiti configurò la democrazia italiana come «democrazia dei partiti».


Questo consentì che alcuni istituti della governance locale fossero concepiti come destinati ad essere introdotti in quel sistema di moderna liberal-democrazia, la cui garanzia di democraticità era assicurata, appunto, dalla vicinanza tra il sistema elettivo e la vitalità e il ruolo dei partiti, fattori che si sostenevano in sinergia.


In questo clima culturale il sistema di governance locale affidò la sua ulteriore evoluzione all’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti, con il connesso sistema di prerogative che oggi appaiono del tutto personali, ma la cui garanzia di essere strumento di democrazia era che avrebbero dovuto essere attuate mentre era in vigore la mediazione e il consenso attraverso i partiti.


Beninteso Partiti normali, democratici, non quelli oligarchici o deviati dal loro ruolo.


Gli anni ’92-’94, uno dei momenti più drammatici della storia d’Italia, con la furia iconoclasta in particolare verso i partiti che, invece, la costituzione repubblicana aveva definito come centro della mediazione sociale, essenziali per una democrazia moderna e liberale, ne sconvolsero il normale funzionamento e avviarono la stagione della legislazione di emergenza, anche dietro la spinta referendaria: alcune riforme, fra le quali l’elezione diretta dei sindaci e il connesso sistema di poteri loro assegnati, furono accelerate, sicché uno strumento destinato alla democrazia liberale ha avuto applicazione in un contenitore democratico del tutto diverso.


La crisi della prima metà degli anni ’90, infatti, progressivamente e radicalmente ha trasformato la fisionomia della democrazia italiana, decretando il trionfo di nuove oligarchie; la democrazia ha assunto il carattere di sistema e di ideologia al servizio del marcato, per giunta dominato da un ristretto gruppo di potentati economici.


In pratica la post democrazia, come superamento della liberal-democrazia, nel quale opera una pluralità di poteri e nel quale i governati non esercitano più il potere ultimo sui governanti e i governi sono ridotti al ruolo di amministratori locali del potere delle oligarchie, un sistema nel quale fa il suo ingresso il mero «consumatore della politica», nel quale i partiti assistono all’indebolimento delle proprie strutture, la militanza al suo interno perde il carattere organizzato permanente e diviene occasionale, il rapporto tra dirigenti e base diventa plebiscitario, la discussione politica si trasferisce nei giornali e nelle televisioni.


Al cittadino politicamente attivo, dunque, la cerchia che progressivamente si restringe rifugiandosi nell’astensionismo, data la sua fisionomia di cittadino consumatore, non rimane che il mercato della politica, con il voto, come efficacemente descrive Salvadori, la scelta fra schieramenti, l’atteggiamento di fronte ai programmi (nelle rare volte in cui questi vengono prospettati) che si esprime solo nel dire «mi piace» o «non mi piace», «compro» o «non compro».


L’individuo consapevole dei propri diritti, capace di comprendere l’ordine del giorno della politica per potervi partecipare, per dare un voto autonomamente deciso, è ormai una specie in estinzione, i grandi partiti sono ormai in stato agonico.


La progressiva personalizzazione della politica, quando non la feudalizzazione dei partiti, lascia libero spazio al leaderismo plebiscitario: la figura del leader, nella specie Sindaco o il Presidente, libero da condizionamenti originariamente previsti, si appropria della totale libertà e autonomia nelle decisioni, anche quelle che sovente investono i destini di persone: abbandonandosi in non pochi casi al più aberrante trasformismo.


«Mi consulterò con me stesso» ha tuonato qualche giorno fa un Governatore regionale alle prese con la ricomposizione di una Giunta regionale autonomamente dimissionata qualche giorno prima, nel vano tentativo, anch’esso deciso con se stesso (!), di snaturare l’originaria fisionomia politica della coalizione.


Mentre prima i partiti, guidati anche da leader forti, orientavano e dominavano la scena pubblica, oggi, non solo in Italia, partiti sempre più personalizzati sembrano seguire il sistema americano per cui addirittura portano il nome dei loro leader, i quali creano a loro utilità liste o partiti, coalizioni o giunte che fra gli scopi primari hanno quelli di assecondare innanzitutto i loro interessi (non necessariamente solo economici).


Capita così che un ri-candidato sindaco, anche segretario regionale di un grande partito di sinistra, sia giunto a presentare una lista civica che portava il suo nome e che (non solo potenzialmente) si poneva in competizione con la lista del suo stesso partito.


E che presidenti o sindaci sciolgano coalizioni, immaginino altre alleanze, avviano esperimenti che chiamano «laboratori» per nuove formule, che pur essendo per loro natura frutto del lavoro collettivo, si affidano invece alla fantasia (se non più spesso alle convenienze personali e individuali ) di questo o quel leader.


Con ciò seppellendo l’insegnamento di Norberto Bobbio richiamato da Salvadori secondo il quale «un partito personale è una anomalia, una contraddizione in termini […] perché il partito per definizione è un’associazione di individui che stanno assieme per raggiungere uno scopo comune».


Al Sindaco ad elezione diretta, dunque, immaginato dalla cultura riformista e liberaldemocratica come istituto che affidava i suoi poteri e la sua azione all’equilibrio tra partiti e assemblea elettiva ma sempre al popolo sovrano, sia pure attraverso due distinti ma convergenti diversi modi di manifestazione del consenso, si contrappone oggi, nella post democrazia, una figura che libera dai vincoli propri della democrazia che decide con la partecipazione, s’identifica con l’ «uomo solo al comando» che decide in perfetta solitudine, al massimo con i suoi intimi, non solo delle cose dell’amministrazione ma anche delle vicende politiche, attesa la ormai sempre più frequente identificazione dei ruoli, politici e di governo.


Avventurasi negli esempi è davvero un fuor d’opera: dalle città del Nord, ma anche da Napoli, Bari, Reggio Calabria, Palermo con l’effetto che nei luoghi dove storicamente la democrazia è più debole e le spinte esterne alla pubblica amministrazione (non sempre nella legalità) più forti e incidenti, i disastri sono più che annunciati, gli effetti catastrofici.


Il tema dunque della governance locale, ben più vasto della sua ingegneria, è non meno importante di altri, e le forze del moderno riformismo debbono porlo all’agenda della politica.


Si tratta certamente di sfoltire la giungla delle istituzioni intermedie tra Comune e Regione (più che di soppressione delle Province), di ridurre il ceto politico amministrativo locale, di contenere e moralizzare i trattamenti anche retributivi, di assicurare efficienza ed efficacia alla governance locale attraverso la riqualificazione dei dipendenti: ma se non si sciolgono alcuni nodi sistemici, che attengono all’essenza della democrazia ogni altro tentativo è destinato all’insuccesso.


Non si tratta di voglia di ritorno ad un impossibile passato, tanto meno di rinnegare l’aspirazione a un più stretto rapporto tra elettore ed eletto: ma di trovare i mezzi, con il progressivo mutare dei sistemi, per applicare il bilanciamento dei poteri, un principio della cultura istituzionale classica (Russeau), e cioè che «il potere frena il potere», sul quale poggia ogni sistema democratico: ad es. la rivalutazione di un incisivo potere di decisione delle Assemblee elettive, i cui componenti, del resto, non diversamente dai primi, sono eletti dai cittadini e di procedere finalmente alla regolamentazione dei partiti prevista dalla Costituzione.


E, dunque, che anche il potere del capo di ogni amministrazione o di governo deve essere bilanciato o frenato da contropoteri che riducano al minimo ogni possibilità che quello è stato concepito come potere democratico si sottragga al solo rischio di essere applicato come arbitrio.


Infine, decidendo di rivalutare la democrazia anche attraverso la rivalutazione dei partiti, decidendo finalmente di applicare l’articolo 49 della Costituzione lungimirante nel prevederne la regolamentazione tradita nella sua voluta inapplicazione.