6 maggio 2012

CENTOVENT’ANNI E SIAMO ANCORA QUI


Di Marco Gervasoni

Professore di storia contemporanea Univ. del Molise
Comitato scientifico della Fondazione Di Vagno


Centoventi anni dopo, siamo ancora qui.
Ed è con un certa emozione per me, che studio la storia del socialismo, essere nelle stessa sala dove tutto ebbe inizio. Un inizio simbolico, certo. Sappiamo infatti che quel congresso fu caratterizzato, il primo giorno, da scontri molto duri tra anarchici e socialisti. E che i socialisti abbandonarono alla fine del pomeriggio la Sala Sivori per riunirsi il giorno dopo, il 15 agosto, in via della Pace. Lì effettivamente nacque il Partito, che si chiamava Partito dei lavoratori italiani, e che solo un anno dopo, al Congresso di Reggio Emilia, prese il nome di Psi. Ma non importa; da sempre nella storia del socialismo Genova, sala Sivori 1892 rappresentano l’inizio di una storia.
Leggiamo lo statuto approvato, che rimase tale fino al 1919. Vi si scrive, tra le altre cose, “che tutti gli uomini, purché concorrano secondo le loro forze a creare e mantenere i benefici della vita sociale, hanno lo stesso diritto a fruire della sicurezza sociale dell’esistenza”. E’ un comma particolarmente voluto da Turati, che è la mente di Genova, anche se il discorso più bello lo recita Prampolini. Allora il partito non ha che un deputato, Andrea Costa, i suoi militanti sono pochi, ma ha già chiare molte cose. La prima, la più importante, che i socialisti si devono battere per la libertà e per la democrazia, in Italia assai fragile la prima, di fatto inesistente la seconda. E che non può farlo da solo: si deve alleare con le forze avanzate della borghesia. Deve entrare nelle istituzioni, e non solo per boicottarle. Può persino, se le condizioni lo consentono, accedere al governo. E’ quello che, appena dieci anni dopo, Giolitti chiede non solo a Turati ma a tutto il Partito. Come sappiamo Turati oppone il gran rifiuto, ma il Psi nei confronti dei governi giolittiani terrà una politica estremamente intelligente. E contribuisce a far approvare un primo embrione di leggi sociali, a favore dei lavoratori. Qui i punti di riferimento sono due: ovviamente Turati, ma anche Leonida Bissolati. Una figura troppo spesso dimenticata nel pantheon socialista: ma uno dei grandi padri del socialismo riformista, oltre che eroe della patria.

A dividere Turati da Bissolati (espulso dal Psi) non è tanto la guerra di Libia, nel 1911: sono l’irrompere delle forze sovversive, insurrezionalistiche, massimaliste che, sempre molti forti nel Psi, Turati e Bissolati sono tuttavia stati in grado di tenere a bada fino a quel momento. Dopo il 1911 non è più così: e a guidare questi massimalisti è la figura più popolare, più nota, Benito Mussolini, che non è un corpo estraneo al socialismo, è figlio del socialismo italiano esattamente come sono suoi figli Costa, Turati, Bissolati. E’ figlio del socialismo e padre del massimalismo, che tanto peso avrà nella storia del partito, ben oltre la cacciata di Mussolini nel 1914.
Quando arriva la Grande guerra, il partito è assai più grande di quello di Genova: ha visto crescere il numero dei suoi deputati, governa diverse città, e soprattutto Milano e Bologna. E’ però l’unico partito socialista che non collabora con il proprio governo in guerra. Per quanto se ne possano capire le ragioni, fu un errore. A cui non può rimediare neppure Turati, dopo Caporetto, con uno dei suoi più emozionanti discorsi parlamentari (sul Monte grappa è la patria). Isola il partito socialista dalla nazione e, finita la guerra, lo apre al massimalismo, che ora ha le fattezze di Lenin.

Il Psi diventa nel ’19 di fatto un partito bolscevico; Turati e i riformisti ridotti a poca cosa. E del 32% delle elezioni del ’19 il Psi non se ne fa nulla. Eppure il governo liberale ha bisogno dei socialisti, non solo dei loro voti ma anche delle loro idee: lo si capisce quando Turati nel ’20 alla Camera propone nel suo discorso Rifare l’Italia, un piano che piace assai a Nitti e a Giolitti. Ma troppo forte è il peso del comunismo e del massimalismo nel Psi, da cui non ci si libera neppure dopo la scissione di Livorno. Il partito rimane nelle mani dei massimalisti filocomunisti, tanto da costringere Turati, Matteotti, Treves, il vecchio Prampolini, i giovani Carlo Rosselli e Giuseppe Saragat, a uscirne e a fondare il Partito socialista unitario. E’ troppo tardi, a poche settimane dalla marcia su Roma. E il partito, senza i riformisti, guidato da Serrati, è pronto a fondersi con il Pcd’I se non intervenisse un giovane leader, entrato nel partito da poco, dopo aver militato con i repubblicani.
Pietro Nenni, che nel 1923 impedisce la fusione e di fatto la sparizione del Psi.

Di fronte al fascismo, il socialismo italiano non ha solo una posizione di opposizione intransigente. Produce nuovi leader, che non sono patrimonio storico solo del socialismo, ma dell’Italia intera; sono ovviamente Matteotti, Rosselli, Nenni, Saragat, Sandro Pertini.

Socialista poi è il primo deputato ucciso dai fascisti, un anno prima della marcia su Roma, Giuseppe Di Vagno,Socialista è il nucleo più solido dell'emigrazione antifascista e non comunista in Francia. Dove, all’inizio degli anni Trenta, Nenni e Saragat unificano il partito socialista e ne diventano i leader, mentre si spengono Turati e Treves. Rosselli arriva in Francia, dopo una rocambolesca evasione, dove pubblica Socialismo liberale: non aderisce al Partito socialista riunificato, ma la sua formazione, “Giustizia e libertà”, è parte della battaglia socialista, dal primo giorno fino a quando nel ’37, Rosselli non verrà assassinato da fascisti francesi su ordine di Mussolini.
Il partito di Nenni e di Saragat non può che allearsi con i comunisti: è la tendenza internazionale dei Fronti popolari, da cui non ci può chiamar fuori. Ma Nenni e Saragat sanno già che cosa sono i comunisti, se ne rendono conto in particolare durante la guerra di Spagna, scrivono sul “Nuovo Avanti” contro i processi di Mosca; per Saragat l’Urss è un regime totalitario, non è socialismo. Un totalitarismo, lo dice persino Saragat, con cui però bisogna allearsi; ma solo per battere il fascismo e il nazismo.

Nella Resistenza il socialismo italiano gioca una parte importante: intanto sono cresciuti, nella clandestinità dell’Italia fascista nuovi giovani leader : sono Rodolfo Morandi, Lelio Basso, Eugenio Colorni, che scrive con Spinelli e Rossi “Il Manifesto di Ventotene” alle origini dell’europeismo, e che muore nel ’44 ucciso dalla Banda Koch.
Nel Psi rientrano leader comunisti esclusi dal partito; su tutti, Ignazio Silone, lo scrittore italiano allora più letto all’estero e uno dei più letti in Italia.
Il Psi nell’immediato dopoguerra è il partito del futuro: lo credono molti italiani, ma lo credono anche gli americani, che vi fanno affidamento all’inizio, cercano di allontanarli dai comunisti, lo preferiscono di gran lunga alla Dc.
Nenni è l’uomo più popolare d’Italia, i suoi comizi sono bagni di folla, e con i suoi comizi educa alla democrazia. Se si deve fare un solo nome per spiegare la vittoria della Repubblica, questo nome è quello di Nenni.

E’ in questo momento che il gruppo dirigente, e Nenni in primis, commettono uno dei più grossi errori della storia del partito; invece di fare come tutti i partiti socialisti dell’Europa occidentale, e schierarsi contro Stalin e contro Mosca, ne diventano strettissimi alleati.
Non è solo un separarsi dagli altri partiti fratelli - e infatti l’Internazionale socialista espelle il Psi - è il tradimento più totale della storia e della identità socialiste. Una forza nata per la libertà e per la giustizia si allea con il totalitarismo comunista: non solo vi si allea, il Psi, grazie a Morandi, prende la forma di un partito leninista, che non era mai stato neppure negli anni dell'ubriacatura massimalista del diciannove. All’errore si oppone Saragat con coraggio: è lui, che a Palazzo Barberini e per diversi anni, ha ragione e tiene accesa la fiamma più autentica del socialismo italiano. Ma le sue forze sono limitate.
Eppure anche negli anni bui e terribili del frontismo, un germe della identità libertaria e democratica del Psi rimane, e lo si vede nella sua condotta parlamentare.
Non a caso, non solo Saragat, ma anche gli azionisti, i liberali di sinistra i repubblicani, gli intellettuali del “Mondo” aspettano che Nenni si liberi dall’abbraccio mortale con Togliatti.

Questo avviene sì, dal ’56, ma lentamente.
Ed è ancora lo sforzo di uomo, di Nenni, che in età ormai avanzata mette in gioco tutto se stesso per ridare un futuro al partito. E al paese.
Per lui infatti, diversamente che da altri, come Riccardo Lombardi, l’autonomia socialista si deve spendere al governo. E quindi, negli anni Sessanta, con la Dc prima di Fanfani. poi di Moro.

E’ il centrosinistra. La stagione più ricca di riforme, non solo sociali, ma anche di diritti civili, dell’Italia repubblicana.
E non è neppure vero, come vuole la vulgata diffusa dalla storiografia comunista, che le riforme siano state in fondo scarse e poco incisive, che il centrosinistra sia stato un “riformismo senza riforme”.
Non solo il governo Fanfani, ma anche il governo Moro-Nenni fanno interventi importanti, sulla sanità, sui lavori pubblici, con il ministro socialista di maggior spicco, Giacomo Mancini, sulle pensioni; l’art. 18 è varato dall’ultimo governo Moro,
Importante fu anche la stagione finale del centro sinistra, tra il ’69 e ‘il ’72, quando entrano in vigore lo statuto dei lavoratori, il divorzio e molto altro.
E’ il momento più alto, fino a quel momento, di collaborazione tra le cultura politica socialista, quella cattolica democratica e quella laico-liberale.
Certo, in Italia governare non porta consenso elettorale, almeno al Psi, che dopo la stagione di governo esce fortemente ridimensionato.
Talmente ridimensionato che la nuova leadership, attorno a Francesco De Martino, finisce più o meno involontariamente per fare del Psi un alleato subalterno del Pci di Berlinguer fautore del compromesso storico. E’ un errore, da parte di De Martino, dichiarare nel ’76 che il Psi non andrà più al governo senza i comunisti. Non solo perché, come avvisa Bobbio, tra i principali intellettuali socialisti, così si rende il Psi irrilevante. I comunisti sono cambiati, certo, Berlinguer non è Togliatti, ma è sempre comunista,
E, come aveva detto Turati nel ’21 a Livorno, i socialisti sono incompatibili con i comunisti. Non a caso, negli anni di De Martino la cultura e la memoria socialista tornano a dimenticate Turati. E allora si capisce perché gli elettori penalizzino il Psi, diventato una copia sbiadita del Pci.
Lo capisce subito chi, da leader della piccolissima corrente nenniana, non ha dimenticato Turati.

Stiamo ovviamente parlando di Bettino Craxi. Con la sua segreteria, cambia tutto, con gradualità, ma anche con nettezza.
Craxi lo spiega subito: il Psi deve recuperare la sua autonomia, che per esser politica deve anche essere culturale.
L’immagine di un Craxi non solo disinteressato ma persino ostile alla cultura e alle idee è falsa. Il nuovo segretario stimola tutte le forze culturali, non solo del partito, ma anche di area, come si comincia a dire, per trasformare il Psi in un partito socialista moderno, compiutamente riformista, e ovviamente competitivo con il Pci.
Craxi riporta integralmente il Psi in Europa; i suoi punti di riferimento sono Brandt, Schmidt, Kraisky e Mitterrand, mentre assieme a lui crescono Gonzalez e Olaf Palme.
Il Psi di Craxi, soprattutto tra il ’78 e l’82, è il partito più innovatore e più ricco di idee che l’Italia possa avere; e uno dei più avanzati del socialismo europeo: a confessarlo è Tony Blair che, giovane deputato eletto per la prima volta nell’83, guarda con ammirazione e interesse al partito socialista di Craxi.
Ho studiato di recente le relazioni sulle politiche del lavoro che Franco Reviglio, Francesco Forte, Ezio Tarantelli inviano a Craxi tra l’82 e l’83 e che sono depositate nelle carte della Fondazione Craxi. C’è tutta la riforma che nessuno, nella seconda Repubblica, ha fatto. E a cui si ispira non poco quella di questi giorni del governo, ma trent’anni dopo!
E davvero non è retorica dire che la Conferenza di Rimini dell’82 è talmente ricca di idee, che ripubblicandole senza indicare la fonte, sembrano scritte oggi.
Questo nuovo ruolo dei socialisti è dovuta alla forza della leadership craxiana e del suo gruppo dirigente.

Il clima nuovo degli anni Ottanta ha però un altro padre: Sandro Pertini.
Non è il primo presidente socialista; il primo è stato Saragat.
Ma quanto diversa la presidenza di Pertini da quella di Saragat. Non solo sul piano comunicativo, su quello che ha dato agli italiani, ma su quello che ha fatto spesso andando oltre le righe, per sbloccare la situazione politica.
Senza di lui, Craxi non avrebbe l'incarico nel ’79, senza successo ma che lo rende “presidenziale” e forse senza Pertini non ci sarebbe neanche l’incarico vincente dell’agosto dell’83.
Sul governo Craxi, ci sarebbe molto da dire. E’ certo uno dei governi più fattivi dell’Italia repubblicana, ricco di riforme e di interventi.
Certo non è facile governare il paese: Craxi lo sa fin da ’79, quando ha proposto la Grande Riforma. Lo capisce direttamente a Palazzo Chigi. Per governare l’esecutivo deve avere gli strumenti per decidere. I socialisti si impegnano nel proporre riforme istituzionali, che poi altri impugneranno. La via presidenzialista, scelta dopo l’87, non ha però successo, anche se forse in quel momento è quello che serve al paese.
Ma venticinque anni dopo siamo impantanati allo stesso modo, e l’Italia non è più la quinta potenza economica del pianeta.

Con la caduta del governo Craxi inizia il vero declino della Repubblica dei partiti: il Psi, che con Craxi è il partito più riformatore, comincia ad essere percepito, anche per i suoi errori, come il più conservatore.
Craxi, che già prima di diventare presidente del consiglio era il leader più demonizzato dai comunisti, diventa vittima di gruppi mediatici e interessi imprenditoriali. Viene visto come l'architrave del sistema, è lui da abbattere. Così la pensa metà della Dc, la cosiddetta “sinistra”, il Pci, che è in crisi ma non vuole morire socialista e men che meno craxiano, settori di Confindustria, gruppi mediatico-editoriali.
Non fosse sufficiente, Craxi fin dall’81 è inviso alla magistratura, non solo alla componente “rossa” e filocomunista, per le sue proposte di riforma dell’ordinamento. Ci sono tutti gli ingredienti per capire ciò che succede nel ’92-93, un auto da fé, accesa anche e soprattutto dalle televisioni di Berlusconi, che con la fine di Craxi porta con se quella di tutti gli altri partiti.

La Seconda Repubblica si apre sull’onda di una “falsa rivoluzione”, come denuncia Craxi, e continuerà con il suo falso bipolarismo, con i suoi leader posticci, con la sua falsa destra e con la sua falsa sinistra.
Il partito socialista si scioglie, i socialisti non finiscono però, entrano nei due blocchi, la cosiddetta “destra” e la cosiddetta” sinistra”; berlusconiani, postcomunisti e postdemocristiani spesso ricorrono a socialisti dandogli ruoli politici e posti ministeriali di rilievo.
Intanto in Europa il socialismo cambia, muta, subisce sconfitte ma inanella poi vittorie. Blair, Zapatero, Schroder: nessun socialista può oggi far a meno di apprendere, anche dai loro errori.
E speriamo che tra una settimana, a Parigi, un allievo modello di Mitterrand, faccia ripartire la nuova stagione del socialismo europeo, e anche di quello italiano, come aveva fatto trentun anni prima il suo maestro.
E noi siamo ancora qui: il mondo rispetto al 1892 è tutto cambiato, i valori no: libertà e giustizia.
Di oggi ce n’è bisogno, come centoventi anni fa.