Di
Marco Gervasoni
Professore
di storia contemporanea Univ. del Molise
Comitato
scientifico della Fondazione Di Vagno
Centoventi
anni dopo, siamo ancora qui.
Ed
è con un certa emozione per me, che studio la storia del socialismo,
essere nelle stessa sala dove tutto ebbe inizio. Un inizio simbolico,
certo. Sappiamo infatti che quel congresso fu caratterizzato, il
primo giorno, da scontri molto duri tra anarchici e socialisti. E che
i socialisti abbandonarono alla fine del pomeriggio la Sala Sivori
per riunirsi il giorno dopo, il 15 agosto, in via della Pace. Lì
effettivamente nacque il Partito, che si chiamava Partito dei
lavoratori italiani, e che solo un anno dopo, al Congresso di Reggio
Emilia, prese il nome di Psi. Ma non importa; da sempre nella storia
del socialismo Genova, sala Sivori 1892 rappresentano l’inizio di
una storia.
Leggiamo
lo statuto approvato, che rimase tale fino al 1919. Vi si scrive, tra
le altre cose, “che tutti gli uomini, purché concorrano secondo le
loro forze a creare e mantenere i benefici della vita sociale, hanno
lo stesso diritto a fruire della sicurezza sociale dell’esistenza”.
E’ un comma particolarmente voluto da Turati, che è la mente di
Genova, anche se il discorso più bello lo recita Prampolini. Allora
il partito non ha che un deputato, Andrea Costa, i suoi militanti
sono pochi, ma ha già chiare molte cose. La prima, la più
importante, che i socialisti si devono battere per la libertà e per
la democrazia, in Italia assai fragile la prima, di fatto inesistente
la seconda. E che non può farlo da solo: si deve alleare con le
forze avanzate della borghesia. Deve entrare nelle istituzioni, e non
solo per boicottarle. Può persino, se le condizioni lo consentono,
accedere al governo. E’ quello che, appena dieci anni dopo,
Giolitti chiede non solo a Turati ma a tutto il Partito. Come
sappiamo Turati oppone il gran rifiuto, ma il Psi nei confronti dei
governi giolittiani terrà una politica estremamente intelligente. E
contribuisce a far approvare un primo embrione di leggi sociali, a
favore dei lavoratori. Qui i punti di riferimento sono due:
ovviamente Turati, ma anche Leonida Bissolati. Una figura troppo
spesso dimenticata nel pantheon socialista: ma uno dei grandi padri
del socialismo riformista, oltre che eroe della patria.
A
dividere Turati da Bissolati (espulso dal Psi) non è tanto la guerra
di Libia, nel 1911: sono l’irrompere delle forze sovversive,
insurrezionalistiche, massimaliste che, sempre molti forti nel Psi,
Turati e Bissolati sono tuttavia stati in grado di tenere a bada fino
a quel momento. Dopo il 1911 non è più così: e a guidare questi
massimalisti è la figura più popolare, più nota, Benito Mussolini,
che non è un corpo estraneo al socialismo, è figlio del socialismo
italiano esattamente come sono suoi figli Costa, Turati, Bissolati.
E’ figlio del socialismo e padre del massimalismo, che tanto peso
avrà nella storia del partito, ben oltre la cacciata di Mussolini
nel 1914.
Quando
arriva la Grande guerra, il partito è assai più grande di quello di
Genova: ha visto crescere il numero dei suoi deputati, governa
diverse città, e soprattutto Milano e Bologna. E’ però l’unico
partito socialista che non collabora con il proprio governo in
guerra. Per quanto se ne possano capire le ragioni, fu un errore. A
cui non può rimediare neppure Turati, dopo Caporetto, con uno dei
suoi più emozionanti discorsi parlamentari (sul Monte grappa è la
patria). Isola il partito socialista dalla nazione e, finita la
guerra, lo apre al massimalismo, che ora ha le fattezze di Lenin.
Il
Psi diventa nel ’19 di fatto un partito bolscevico; Turati e i
riformisti ridotti a poca cosa. E del 32% delle elezioni del ’19 il
Psi non se ne fa nulla. Eppure il governo liberale ha bisogno dei
socialisti, non solo dei loro voti ma anche delle loro idee: lo si
capisce quando Turati nel ’20 alla Camera propone nel suo discorso
Rifare l’Italia, un piano che piace assai a Nitti e a Giolitti. Ma
troppo forte è il peso del comunismo e del massimalismo nel Psi, da
cui non ci si libera neppure dopo la scissione di Livorno. Il partito
rimane nelle mani dei massimalisti filocomunisti, tanto da
costringere Turati, Matteotti, Treves, il vecchio Prampolini, i
giovani Carlo Rosselli e Giuseppe Saragat, a uscirne e a fondare il
Partito socialista unitario. E’ troppo tardi, a poche settimane
dalla marcia su Roma. E il partito, senza i riformisti, guidato da
Serrati, è pronto a fondersi con il Pcd’I se non intervenisse un
giovane leader, entrato nel partito da poco, dopo aver militato con i
repubblicani.
Pietro
Nenni, che nel 1923 impedisce la fusione e di fatto la sparizione del
Psi.
Di
fronte al fascismo, il socialismo italiano non ha solo una posizione
di opposizione intransigente. Produce nuovi leader, che non sono
patrimonio storico solo del socialismo, ma dell’Italia intera; sono
ovviamente Matteotti, Rosselli, Nenni, Saragat, Sandro Pertini.
Socialista
poi è il primo deputato ucciso dai fascisti, un anno prima della
marcia su Roma, Giuseppe Di Vagno,Socialista
è il nucleo più solido dell'emigrazione antifascista e non
comunista in Francia. Dove, all’inizio degli anni Trenta, Nenni e
Saragat unificano il partito socialista e ne diventano i leader,
mentre si spengono Turati e Treves. Rosselli arriva in Francia, dopo
una rocambolesca evasione, dove pubblica Socialismo liberale: non
aderisce al Partito socialista riunificato, ma la sua formazione,
“Giustizia e libertà”, è parte della battaglia socialista, dal
primo giorno fino a quando nel ’37, Rosselli non verrà assassinato
da fascisti francesi su ordine di Mussolini.
Il
partito di Nenni e di Saragat non può che allearsi con i comunisti:
è la tendenza internazionale dei Fronti popolari, da cui non ci può
chiamar fuori. Ma Nenni e Saragat sanno già che cosa sono i
comunisti, se ne rendono conto in particolare durante la guerra di
Spagna, scrivono sul “Nuovo Avanti” contro i processi di Mosca;
per Saragat l’Urss è un regime totalitario, non è socialismo. Un
totalitarismo, lo dice persino Saragat, con cui però bisogna
allearsi; ma solo per battere il fascismo e il nazismo.
Nella
Resistenza il socialismo italiano gioca una parte importante: intanto
sono cresciuti, nella clandestinità dell’Italia fascista nuovi
giovani leader : sono Rodolfo Morandi, Lelio Basso, Eugenio Colorni,
che scrive con Spinelli e Rossi “Il Manifesto di Ventotene” alle
origini dell’europeismo, e che muore nel ’44 ucciso dalla Banda
Koch.
Nel
Psi rientrano leader comunisti esclusi dal partito; su tutti, Ignazio
Silone, lo scrittore italiano allora più letto all’estero e uno
dei più letti in Italia.
Il
Psi nell’immediato dopoguerra è il partito del futuro: lo credono
molti italiani, ma lo credono anche gli americani, che vi fanno
affidamento all’inizio, cercano di allontanarli dai comunisti, lo
preferiscono di gran lunga alla Dc.
Nenni
è l’uomo più popolare d’Italia, i suoi comizi sono bagni di
folla, e con i suoi comizi educa alla democrazia. Se si deve fare un
solo nome per spiegare la vittoria della Repubblica, questo nome è
quello di Nenni.
E’
in questo momento che il gruppo dirigente, e Nenni in primis,
commettono uno dei più grossi errori della storia del partito;
invece di fare come tutti i partiti socialisti dell’Europa
occidentale, e schierarsi contro Stalin e contro Mosca, ne diventano
strettissimi alleati.
Non
è solo un separarsi dagli altri partiti fratelli - e infatti
l’Internazionale socialista espelle il Psi - è il tradimento più
totale della storia e della identità socialiste. Una forza nata per
la libertà e per la giustizia si allea con il totalitarismo
comunista: non solo vi si allea, il Psi, grazie a Morandi, prende la
forma di un partito leninista, che non era mai stato neppure negli
anni dell'ubriacatura massimalista del diciannove. All’errore si
oppone Saragat con coraggio: è lui, che a Palazzo Barberini e per
diversi anni, ha ragione e tiene accesa la fiamma più autentica del
socialismo italiano. Ma le sue forze sono limitate.
Eppure
anche negli anni bui e terribili del frontismo, un germe della
identità libertaria e democratica del Psi rimane, e lo si vede nella
sua condotta parlamentare.
Non
a caso, non solo Saragat, ma anche gli azionisti, i liberali di
sinistra i repubblicani, gli intellettuali del “Mondo” aspettano
che Nenni si liberi dall’abbraccio mortale con Togliatti.
Questo
avviene sì, dal ’56, ma lentamente.
Ed
è ancora lo sforzo di uomo, di Nenni, che in età ormai avanzata
mette in gioco tutto se stesso per ridare un futuro al partito. E al
paese.
Per
lui infatti, diversamente che da altri, come Riccardo Lombardi,
l’autonomia socialista si deve spendere al governo. E quindi, negli
anni Sessanta, con la Dc prima di Fanfani. poi di Moro.
E’
il centrosinistra. La stagione più ricca di riforme, non solo
sociali, ma anche di diritti civili, dell’Italia repubblicana.
E
non è neppure vero, come vuole la vulgata diffusa dalla storiografia
comunista, che le riforme siano state in fondo scarse e poco
incisive, che il centrosinistra sia stato un “riformismo senza
riforme”.
Non
solo il governo Fanfani, ma anche il governo Moro-Nenni fanno
interventi importanti, sulla sanità, sui lavori pubblici, con il
ministro socialista di maggior spicco, Giacomo Mancini, sulle
pensioni; l’art. 18 è varato dall’ultimo governo Moro,
Importante
fu anche la stagione finale del centro sinistra, tra il ’69 e ‘il
’72, quando entrano in vigore lo statuto dei lavoratori, il
divorzio e molto altro.
E’
il momento più alto, fino a quel momento, di collaborazione tra le
cultura politica socialista, quella cattolica democratica e quella
laico-liberale.
Certo,
in Italia governare non porta consenso elettorale, almeno al Psi, che
dopo la stagione di governo esce fortemente ridimensionato.
Talmente
ridimensionato che la nuova leadership, attorno a Francesco De
Martino, finisce più o meno involontariamente per fare del Psi un
alleato subalterno del Pci di Berlinguer fautore del compromesso
storico. E’ un errore, da parte di De Martino, dichiarare nel ’76
che il Psi non andrà più al governo senza i comunisti. Non solo
perché, come avvisa Bobbio, tra i principali intellettuali
socialisti, così si rende il Psi irrilevante. I comunisti sono
cambiati, certo, Berlinguer non è Togliatti, ma è sempre comunista,
E,
come aveva detto Turati nel ’21 a Livorno, i socialisti sono
incompatibili con i comunisti. Non a caso, negli anni di De Martino
la cultura e la memoria socialista tornano a dimenticate Turati. E
allora si capisce perché gli elettori penalizzino il Psi, diventato
una copia sbiadita del Pci.
Lo
capisce subito chi, da leader della piccolissima corrente nenniana,
non ha dimenticato Turati.
Stiamo
ovviamente parlando di Bettino Craxi. Con la sua segreteria, cambia
tutto, con gradualità, ma anche con nettezza.
Craxi
lo spiega subito: il Psi deve recuperare la sua autonomia, che per
esser politica deve anche essere culturale.
L’immagine
di un Craxi non solo disinteressato ma persino ostile alla cultura e
alle idee è falsa. Il nuovo segretario stimola tutte le forze
culturali, non solo del partito, ma anche di area, come si comincia a
dire, per trasformare il Psi in un partito socialista moderno,
compiutamente riformista, e ovviamente competitivo con il Pci.
Craxi
riporta integralmente il Psi in Europa; i suoi punti di riferimento
sono Brandt, Schmidt, Kraisky e Mitterrand, mentre assieme a lui
crescono Gonzalez e Olaf Palme.
Il
Psi di Craxi, soprattutto tra il ’78 e l’82, è il partito più
innovatore e più ricco di idee che l’Italia possa avere; e uno dei
più avanzati del socialismo europeo: a confessarlo è Tony Blair
che, giovane deputato eletto per la prima volta nell’83, guarda con
ammirazione e interesse al partito socialista di Craxi.
Ho
studiato di recente le relazioni sulle politiche del lavoro che
Franco Reviglio, Francesco Forte, Ezio Tarantelli inviano a Craxi tra
l’82 e l’83 e che sono depositate nelle carte della Fondazione
Craxi. C’è tutta la riforma che nessuno, nella seconda Repubblica,
ha fatto. E a cui si ispira non poco quella di questi giorni del
governo, ma trent’anni dopo!
E
davvero non è retorica dire che la Conferenza di Rimini dell’82 è
talmente ricca di idee, che ripubblicandole senza indicare la fonte,
sembrano scritte oggi.
Questo
nuovo ruolo dei socialisti è dovuta alla forza della leadership
craxiana e del suo gruppo dirigente.
Il
clima nuovo degli anni Ottanta ha però un altro padre: Sandro
Pertini.
Non
è il primo presidente socialista; il primo è stato Saragat.
Ma
quanto diversa la presidenza di Pertini da quella di Saragat. Non
solo sul piano comunicativo, su quello che ha dato agli italiani, ma
su quello che ha fatto spesso andando oltre le righe, per sbloccare
la situazione politica.
Senza
di lui, Craxi non avrebbe l'incarico nel ’79, senza successo ma che
lo rende “presidenziale” e forse senza Pertini non ci sarebbe
neanche l’incarico vincente dell’agosto dell’83.
Sul
governo Craxi, ci sarebbe molto da dire. E’ certo uno dei governi
più fattivi dell’Italia repubblicana, ricco di riforme e di
interventi.
Certo
non è facile governare il paese: Craxi lo sa fin da ’79, quando ha
proposto la Grande Riforma. Lo capisce direttamente a Palazzo Chigi.
Per governare l’esecutivo deve avere gli strumenti per decidere. I
socialisti si impegnano nel proporre riforme istituzionali, che poi
altri impugneranno. La via presidenzialista, scelta dopo l’87, non
ha però successo, anche se forse in quel momento è quello che serve
al paese.
Ma
venticinque anni dopo siamo impantanati allo stesso modo, e l’Italia
non è più la quinta potenza economica del pianeta.
Con
la caduta del governo Craxi inizia il vero declino della Repubblica
dei partiti: il Psi, che con Craxi è il partito più riformatore,
comincia ad essere percepito, anche per i suoi errori, come il più
conservatore.
Craxi,
che già prima di diventare presidente del consiglio era il leader
più demonizzato dai comunisti, diventa vittima di gruppi mediatici e
interessi imprenditoriali. Viene visto come l'architrave del sistema,
è lui da abbattere. Così la pensa metà della Dc, la cosiddetta
“sinistra”, il Pci, che è in crisi ma non vuole morire
socialista e men che meno craxiano, settori di Confindustria, gruppi
mediatico-editoriali.
Non
fosse sufficiente, Craxi fin dall’81 è inviso alla magistratura,
non solo alla componente “rossa” e filocomunista, per le sue
proposte di riforma dell’ordinamento. Ci sono tutti gli ingredienti
per capire ciò che succede nel ’92-93, un auto da fé, accesa
anche e soprattutto dalle televisioni di Berlusconi, che con la fine
di Craxi porta con se quella di tutti gli altri partiti.
La
Seconda Repubblica si apre sull’onda di una “falsa rivoluzione”,
come denuncia Craxi, e continuerà con il suo falso bipolarismo, con
i suoi leader posticci, con la sua falsa destra e con la sua falsa
sinistra.
Il
partito socialista si scioglie, i socialisti non finiscono però,
entrano nei due blocchi, la cosiddetta “destra” e la cosiddetta”
sinistra”; berlusconiani, postcomunisti e postdemocristiani spesso
ricorrono a socialisti dandogli ruoli politici e posti ministeriali
di rilievo.
Intanto
in Europa il socialismo cambia, muta, subisce sconfitte ma inanella
poi vittorie. Blair, Zapatero, Schroder: nessun socialista può oggi
far a meno di apprendere, anche dai loro errori.
E
speriamo che tra una settimana, a Parigi, un allievo modello di
Mitterrand, faccia ripartire la nuova stagione del socialismo
europeo, e anche di quello italiano, come aveva fatto trentun anni
prima il suo maestro.
E
noi siamo ancora qui: il mondo rispetto al 1892 è tutto cambiato, i
valori no: libertà e giustizia.
Di
oggi ce n’è bisogno, come centoventi anni fa.