17 dicembre 2007

Una riflessione sul lavoro - di Francesco Errico

Gli operai morti sul lavoro a Torino suscitano sentimenti di angoscia. Si può morire per mille euro al mese? A chi attribuire la responsabilità ultima di salari da fame e di impianti non a norma? E’ come se ci svegliassimo da un lungo sonno. Dunque gli operai esistono ancora nella economia terziarizzata? E chi sono costoro?

Gli operai esistono. Negli anni ’70 il lavoro manuale rappresentava in Italia il 50% circa del totale della forza lavoro. Nel 2000 è stato rilevato (fonte ISTAT) che esso si attesta sul 20% della forza lavoro (con una inesorabile tendenza al decremento) e, in particolare, che gli operai della grande fabbrica sono ormai soltanto il 2% dell’occupazione totale.
Dunque gli operai esistono, ma rappresentano una categoria minoritaria, che dimagrisce ogni giorno. Da classe sociale, sono oggi una piccola categoria professionale eterogenea nelle aspirazioni, nei tragitti professionali, nella biografia familiare, anche nei livelli d’istruzione. Basta questo per non occuparsi più di loro? Direi francamente che non basta.
Al danno di lavorare rischiando la vita, si aggiunge la beffa di farlo a fronte di buste paga imbarazzanti se confrontate al resto d’Europa. Un operaio dello stabilimento Nissan di Sunderland (Inghilterra) guadagna mediamente circa il doppio di uno italiano. In questo polo industriale non si registrano né incidenti sul lavoro, né conflittualità sociale sul rinnovo dei contratti (e il sindacato è presente, bene inteso). E’ un sindacato “giallo”, cioè amico dei padroni? Niente affatto, è un sindacato che ha negoziato e negozia a ogni scadenza condizioni di lavoro assai vantaggiose per i dipendenti. Come ci riesce?


A guardar bene, questo risultato si ottiene in ragione di uno sforzo cooperativo fra tutte le parti in causa: le Istituzioni Pubbliche, che investono risorse in centri di ricerca, formazione ed infrastrutture, piuttosto che in lavori “socialmente utili”, casse integrazioni e pensionati cinquantenni; l’impresa, che ha capito che il benessere - psicofisico ed economico - dei lavoratori è il benessere dell’impresa; il sindacato, che capisce che il successo competitivo dell’impresa rappresenta la sicurezza e la tranquillità economica dei lavoratori. Cose impensabili in Italia.
Leggere il primo capoverso del protocollo d’intesa impresa/sindacato della Nissan di Sunderland lascia esterrefatti: vi si dice, sostanzialmente, che le parti convergono su un obiettivo generale e cioè che Direzione Aziendale e sindacato puntano insieme al successo dell’impresa e che cooperano in ragione di questo grande obiettivo comune. L’azienda riconoscendo la centralità della risorsa umana e promuovendo la crescita professionale dei lavoratori e il sindacato riconoscendo l’obiettivo centrale dell’affermazione dei prodotti Nissan sul mercato globale (ve lo immaginate un accordo del genere sottoscritto da Rinaldini e Cremaschi ed invero anche da Confindustria?).
Risultato? Salari minimi (comprendenti premi di produttività e benefit) di oltre 2.000 euro al mese e stabilimenti fra i più moderni e sicuri del mondo. Ed il governo Blair (nel frattempo) che per valorizzare questo polo industriale investe milioni di sterline in infrastrutture ed usa la leva del fisco non per opprimere o scoraggiare, ma per incoraggiare gli investimenti produttivi.
Tralascio l’aspetto (pure importantissimo) che riguarda il livello della contrattazione citata: si tratta del livello aziendale. Da noi sarebbe impossibile, perché siamo impiccati alle rigidità del livello nazionale di contrattazione (per un approfondimento, P. Ichino: “A cosa serve il sindacato?”

In un sistema di politiche contrattuali e del lavoro di questo tipo emerge un altro aspetto decisivo: una parte della retribuzione dei lavoratori è variabile. E sapete sulla base di quali criteri? Nel contratto della Nissan di Sunderland c’è scritto che si effettua congiuntamente una valutazione periodica su: capacità di lavorare in team, capacità di introdurre idee innovative e creative, problem solving, percorsi di aggiornamento professionale per raffinare le competenze e andamento generale dei risultati dell’impresa.
Il fatto di prendere in esame e di premiare queste attitudini ha due implicazioni rilevantissime:
1. l’operaio non è più “operaio”, giacchè non gli viene “concesso”, ma gli viene “chiesto” di pensare, assumere decisioni, proporre soluzioni tecnico/organizzative creative e migliorative;
2. i tragitti professionali ed i ruoli interni all’azienda sono mobili, si introduce il criterio del merito ed ogni lavoratore può immaginare per sé un percorso, una carriera, un avanzamento professionale e retributivo fondato sulle sue competenze e capacità e non sull’anzianità di servizio.

Perché un operaio inglese può disegnare per sé un tragitto di crescita personale, professionale e retributiva ed uno italiano può sperare soltanto che al sua azienda non chiuda, o che non muoia lavorando ed il massimo delle aspirazioni si traduce in un mortificante pre-pensionamento?
Forse anche perché in altri paesi europei le cosiddette “parti sociali” si occupano del benessere delle imprese e dei lavoratori e non si occupano di dettare al Parlamento anche le virgole dei provvedimenti legislativi da approvare (su questa cosa scandalosa vedo che nessun sedicente riformista ha niente da dire).
Dunque, occuparsi degli operai - dopo il dolore, l’angoscia e anche la rabbia di questi giorni - non può essere un inutile ed ipocrita esercizio retorico. Significa avere il coraggio, tutti, di occuparsi delle nostre fallimentari politiche del lavoro e industriali, del nostro sistema di contrattazione obsoleto e dell’eguaglianza “a perdere”, della competitività del nostro sistema delle imprese che scarica i costi della globalizzazione tenendo basso il costo del lavoro ed insicuri gli impianti, della clamorosamente sbagliata protezione del “posto di lavoro” più che del “lavoratore”, della inamovibilità del lavoratore dalla propria unità produttiva, dal proprio reparto, dalla propria mansione, dal proprio salario, dalla propria vita grama, oscura, insidiosa, impoverita, senza prospettive. Significa avere una classe politica che investa in innovazione e supporti infrastrutturali e che non assecondi più i giochetti ideologici di Confindustria e sindacati.
Possono i socialisti (italiani, perché Blair ha fatto esattamente questo) provare a rimettere al centro del dibattito la questione del lavoro con questa ispirazione riformista? Io penso che abbiano il dovere di farlo e che se lo facessero ne guadagnerebbero in credibilità e consensi.

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