21 dicembre 2008

DOVE VA L'UNIVERSITÀ? IL SUO SENSO OGGI .


di Giuseppe Russillo

In un breve saggio dello scorso anno', Jean-Francois Bachelet si chiedeva: «ma dove diavolo sta andando l'Università?».Domanda quanto mai attuale e pressante.Nell'era del capitalismo trionfante e della mercificazione dell'uomo e del suo ambiente il problema non è completamente nuovo.L'avvenire dell'istituzione universitaria, le sue capacità di trasformarsi, per rispondere all'evoluzione del sapere e per tenere il suo posto nella società sono preoccupazioni costanti dei responsabili dell'Università.Tuttavia specialmente in questi ultimi decenni si è visto descrivere l'Università come isolata dalla realtà politica e sociale, rigida, persino reazionaria nel suo funzionamento.Una tale visione è servita in definitiva a quelli che sono interessati a vederla trasformarsi in un senso particolare, che è quello dell'adattamento a una società di mercato, spesso senza la condizione primaria del mercato: la concorrenza, ove tutto, a cominciare dalla scienza, sia potenzialmente commercializzabile e capace di generare profitto univocamente indirizzato.È chiaro che il suo avvenire impone una scelta che non può partire dalla logica di quanti pensano che il progresso risieda solo nelle cose quantificabili e misurabili.Il problema dell'Università è in definitiva legato al tipo di società che si vuole costruire: se si deve parlare di società della conoscenza e della cultura, essa dipende proprio dal posto che si attribuisce al sapere e per estensione alla scienza in ambito sociale.Dal Medioevo è, senza interruzione, generatrice di cultura, con la conseguenza che, malgrado i legami di sottomissione più o meno stretti con i differenti poteri, non ha mai cessato, spesso a proprio rischio, di essere una trasmettitrice di conoscenze innovative, originali, emancipatrici.Nel XIX secolo l'Università è divenuta il simbolo della possibilità della scienza capace di liberare l'uomo intellettualmente e spiritualmente e di migliorare le condizioni materiali della sua esistenza.Utopia? Oggi certamente, soprattutto se si guarda a ciò che è accaduto alla fine del secolo passato: è stato con il maggio '68, paradossalmente, proprio quando si è creduto celebrare il trionfo della libertà e dell'individuo sulle costrizioni della vita sociale, che si è determinato l'avvento di un ordine sociale e politico mondiale, che sembra aspirare al consumo come unico esito dell'esistere.Da questo punto di vista, le grandi teorie sulla fine della storia, proprie della postmodernità, sono servite a far comprendere alle popolazioni e, attraverso esse, ai responsabili politici di ogni colore, che non c'è più niente da contestare, niente altro da volere che il produrre beni, che noi ci affretteremo a consumare.Ma la democrazia di mercato è sempre più una democrazia falsificata ove il problema di un divenire collettivo non si pone più per gli individui, convinti che lo scopo dell'esistenza risieda nella soddisfazione dei propri desideri più triviali e l'affermazione nelle loro sacrosante differenze.A chi dunque potrà servire l'Università? A chi servirà sapere delle cose se queste non hanno alcuna utilità nel sistema? Di fatti la società del tutto-mercato diffida, per definizione, del gratuito. Essa nutre, inoltre, una profonda avversione per tutti i modi di pensare che rischiano di distogliere i consumatori dagli schermi pubblicitari e dai centri commerciali.Meditazione, prudenza, critica, complessità, che caratterizzano la riflessione scientifica, sono troppo antinomiche rispetto alle qualità richieste per adattarsi alla mentalità neoliberale fatta di reattività, di rischio, di soluzioni semplici (ci lasciamo guidare dalla mano invisibile del mercato, come prima ci si rimetteva a Dio).In questo contesto, l'istituzione universitaria che si nutre di quel tipo di pensiero dialettico ed esiste per esso, è impossibile.A meno che non la si trasformi radicalmente per renderla compatibile con le prescrizioni della postmodernità, la quale ha finito per sostituire il virtuale al reale.Svuotata della sua funzione primaria di analisi e interpretazione della realtà, l'Università non è che una vetrina del mondo così come è sognato e rappresentato dai «disinvolti detentori del potere economico: esperti della finanza quanto della speculazione, grandi sacerdoti dell'instabilità e del caos e grandi predatori delle democrazie-mercato».La sua trasformazione e la lenta inclinazione verso un tale modello è in corso, senza entusiasmo eccessivo, ma con una sorprendente docilità da parte di chi ne fa parte.Se si fa eccezione per quelli che parteggiano per i grandi ideali della ricerca e la difesa della libertà - almeno accademica - le Università sembrano brillare maggiormente per ciò che le separa, che per ciò che le accomuna.Ora, al contrario, perché l'Università resti possibile, è fondamentale che quelli che ne fanno parte oltrepassino le frammentazioni e che alla polverizzazione delle persone e delle discipline succeda la riscoperta di ciò che fece la specificità dell'Alma Mater: il sapere, la scienza come catalizzatori di conoscenze e non come giustapposizione di crediti frantumati.Così facendo, conclude Bachelet, l'Università si afferma come uno dei rari luoghi (il solo) dove l'uomo può ancora sperare di trovare raccolte tutte le carte della sua autodeterminazione, della sua capacità di agire come un cittadino, mosso da valori umanistici e non mercantili.Soltanto la testa ben fatta, l'uomo che ragiona a largo raggio, si può opporre alle teste ben piene di impiegati docili e malleabili, richiesti pressantemente dalle federazioni delle imprese e i loro azionisti. Quella testa ben fatta, quell'uomo che ragiona a largo raggio, che percepirà liberamente l'intelligibilità dell'insieme non censurato, non frammentato, e confronterà le conoscenze le une alle altre.Altrimenti, il mondo della cultura sarà un'occasione pretestuosa per le stars accademy, se non anche per le sentenze di calciatori, cantanti e attori (telegenici) riconvertiti in deputati.Per tutto questo si pretende da quelli che hanno la maggiore responsabilità ai livelli più alti, di impegnarsi perché l'Università resti possibile, essendo un pilastro fondamentale della democrazia, in quanto «la democrazia non vale che per l'eccellenza dei destini che persegue idealmente per tutti e se non resta ai giochi di sponda fra gli egoismi e le viltà di ognuno».Inversamente, perseguire la fuga in avanti, nella quale sono impegnate la scuola superiore e la ricerca scientifica, significa rassegnarsi alla dittatura dell'ignoranza e del totalitarismo tecnologico, che ci stanno precipitando verso quell'«inferno di stupidità» che lo scrittore Saul Bellow2 vedeva in prospettiva.

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