17 dicembre 2008

SOCIALISTA ROMANTICO MA NON FRANCESCANO: ROCCO ERRICO RICORDATO DA SUO FIGLIO FRANZ




di Francesco Errico


Rocco Errico era quella che si dice “una brava persona”. Uomo semplice ma dai molteplici interessi, con un’idea romantica della vita.
Pensava che le persone non fossero per loro natura malvagie e che saremmo giunti, un giorno, a costruire un mondo fondato sulla libertà e la giustizia sociale. Al riformismo più che ai vuoti e inconcludenti slogan rivoluzionari assegnava questo compito. Diffidò del marxismo e maneggiò con estrema cautela il concetto di verità: mi sento di definirlo, non so quanto arbitrariamente, un socialista liberale.
Il suo umanesimo lo ritroviamo scavando nelle sue passioni: gli ideali socialisti, la fotografia come testimonianza storica e come racconto.
Mi diceva: “non si fotografa quello che si vede, ma quello che si ha dentro”. E così, soggetti e situazioni apparentemente banali e prive di significato, magicamente, quando usciva dalla camera oscura, si riempivano di pathos e diventavano opere d’arte.

Anche ai suoi tempi, il socialismo riformista non andava molto di moda in Italia. “Papà, hai scelto di essere un uomo di sinistra, ma perché socialista?”, gli chiesi quando ero un ragazzo. Mi convinse in tre mosse.
1. “Perché per aderire ad un’organizzazione devi leggerne lo Statuto (e cioè i suoi obiettivi ultimi), più che sentire quello che dicono le persone che, temporaneamente, la rappresentano. Nello Statuto del PCI si parla di dittatura, in quello del PSI si parla di libertà. Tu cosa sceglieresti?”
2. “Pensa alle più importanti conquiste civili e sociali in favore dei lavoratori e dei più umili in Italia come in Europa e facci caso: portano tutte la firma dei socialisti”.
3. “E poi, se fossi comunista le mie foto, prima di diventare pubbliche, passerebbero al vaglio del Comitato Centrale e nel PSI questo rischio non si corre”, concluse con un argomentazione che sottolineava quel suo sconfinato amore per la libertà e quel tipico compiacimento dei socialisti antropologicamente un po’ anarchici.

Dapprima Riccardo Lombardi, poi Pietro Nenni e quindi Bettino Craxi e Rino Formica sono state le personalità che hanno inciso maggiormente sulla sua formazione. Mi piace ricordare il suo bellissimo e indistruttibile legame con Pasque Fabiano, esponente del PSI barese scomparso pochi anni fa: un’amicizia d’altri tempi. Quando se ne andò, la mia impressione è che Pasquale non fu più la stessa persona, con Rocco andò via anche una parte di Pasquale.

E poi il suo straordinario trasporto verso la famiglia: mia madre Noemi, noi figli, il fratello Federico, insomma le persone della sua vita.

Amava, come è facile immaginare, Henry Cartier Bresson e poi colui che lo iniziò alla fotografia, un bravo fotografo barese, Vito Quadrello.
E Alfred Hitchcock, la sua grande passione (“come fa girare la camera lui non la fa girare nessuno”), il neorealismo di De Sica, il fatalismo partenopeo di Eduardo, il Germi del “Ferroviere”, l’italica ambiguità dei personaggi di Sordi e, per venire alle nostre terre, l’amicizia e l’ammirazione per Vito Signorile e Tina Tempesta, ai quali ha dedicato degli scatti credo irripetibili.

Ma era la sua straordinaria capacità di entrare in sintonia con le persone più umili che mi colpiva: in fondo le sue sequenze fotografiche sono un unico affresco, un grande gesto di affetto e di laica devozione verso gli ultimi, i dimenticati, i deboli. E gli scatti dedicati ai forti, Totò direbbe ai “caporali”, rimandano di riflesso alla condizione dei meno fortunati.
La poesia che leggiamo dietro le foto di mio padre è solo l’espressione, la rappresentazione di questi valori: una famiglia unita, amicizie vere, idealità vissute con generosità, senza calcoli e senza risparmiarsi.
Malgrado la passione socialista, Rocco non fu un uomo politico. Non credo avrebbe mai avuto l’astuzia e anche quel po’ di cinismo per organizzare e gestire una campagna elettorale per sé e infatti non si è mai candidato ad elezioni. “Papà, ti candidi?” “Lasciatemi qua, sto bene come sto”, era l’immancabile risposta.
Ma debbo precisare: questa sua scelta non fu mai snobistica o di latente diffidenza per le classi dirigenti e le tattiche della politica: egli al contrario ammirava molto i grandi leader, quelli che hanno costruito l’Italia dopo il fascismo e a suo modo, con l’impegno del militante, li sosteneva pienamente.

Rocco Errico ha fotografato qualsiasi cosa, perché qualsiasi cosa meritava di essere fermata, a patto di farlo al momento giusto. Una finestra di una casa di paese, un vecchio in un vicolo, un bambino che gioca, un uomo “importante” che si addormenta ad una inaugurazione, perché è la realtà stessa ad essere poesia, se sappiamo coglierla, intercettarla, intuirla, come solo lui sapeva fare.
Un suo collega, una persona di assai modesta estrazione sociale, gli chiese di scattare un servizio fotografico per il matrimonio della figlia. Egli supponeva di avere normali, calligrafiche foto dell’evento e invece ne venne fuori un reportage magistrale, il cui titolo dice tutto: Nozze proletarie.
E così le gite di Pasquetta in famiglia diventavano splendidi servizi fotografici e anche nella cerimonia di apertura della mostra “Scritto sui muri”, ne sono certo, ci avrebbe sorpreso, tirandone fuori una sequenza giocata fra poesia e sarcasmo.
Sono certo che mio padre ha condiviso la scelta di mia madre Noemi, mia personale e di mio fratello Alberto di affidare ad una Istituzione culturale il suo patrimonio artistico: lo abbiamo fatto senza reticenze convinti di fare la cosa giusta, perché la straordinaria sensibilità, l’arguzia ed il messaggio sociale di Rocco potessero sopravvivere all’insidia dell’oblio; insidia che si andava materializzando fra le nostre mura domestiche, dove riguardarsi di tanto in tanto le opere di mio padre diventava un esercizio piacevole, commovente ma per forza di cose un po’ sterile.
Come famiglia, dobbiamo dunque un enorme “grazie” alla Fondazione Di Vagno, a Filippo Giannuzzi, Daniela Caricati, Annalisa Simone, Antonio Leuzzi, Cesare Preti, unitamente alla Regione Puglia e ai sindaci ed Amministrazioni di Bari, Conversano, Mola, Noci: quello che hanno fatto ci emoziona e ci ripaga di vent’anni di immotivato silenzio sulla figura di Rocco Errico.
In particolare, un grazie non rituale a Gianvito Mastroleo: lo ringraziamo per aver voluto e saputo riscoprire Rocco nella sua duplice veste: di artista, ma anche di socialista, giacchè questa sua seconda passione è sempre rimasta un po’ in ombra, non avendo mai voluto essere un uomo politico nel vero senso della parola. Gianvito e Rocco, per un singolare intrecciarsi di coincidenze, non ebbero modo di conoscersi ed hanno familiarizzato soltanto adesso: li accomuna una straordinaria sensibilità civile e sociale e la passione per la libertà.
Rocco era un compagno comune, uno di quelli che si definivano “militanti di base”. Uno che dette più che ricevere, uno che aveva il pudore di chiedere. Ma non condivideva, posso testimoniarlo, la retorica un po’ moralistica ed a volte insincera di molti “compagni di base” e cioè non aveva un’idea francescana del socialismo: una dottrina laica si adatta ai tempi ed interpreta i cambiamenti della società formulando risposte al passo con le evoluzioni del tempo.
Io non so se Rocco abbia avuto il tempo di capire di essere diventato uno dei più importanti fotografi italiani del suo tempo. Il suo carattere schivo non ce lo fece capire. Vent’anni dopo, grazie anche all’interesse che ha suscitato la mostra “Scritto sui muri”, noi - se mai dubbi ci fossero - lo abbiamo definitivamente compreso.

Le foto esposte alla mostra, visitabile fino al 22 dicembre al Piccinni, sono degli inediti: la Fondazione Di Vagno ha scoperto l’esistenza dei negativi durante il lavoro di archiviazione. Aleggia dunque un piccolo mistero destinato a rimanere tale: sono foto che Rocco, per motivi che ignoriamo, non ha mai stampato e delle quali, fatto ancora più singolare che per noi familiari resta incomprensibile perché incoerente col suo modo di essere, non ci ha mai parlato. E’ certo che non può che averle scattate con la lungimiranza del grande artista e con l’ispirazione intellettuale del testimone storico: un giorno, avrà forse pensato nella solitudine del suo andare per le strade di Bari (mi sembra di vederlo) con le sue due fedeli Nikon al collo, servirà stamparle e passarle in rassegna. Aveva visto giusto, quel giorno è arrivato.

Di fronte al luccichio dei colori, ai suoni ed ai rumori della società tecnologica, che ha difficoltà a ridefinire identità e modalità di convivenza civile, Rocco sa riportarci alla genuinità ed alle geometrie semplici ma intense del bianco e nero, alla fatica del vivere, che oggi chissà perché chiamiamo stress, impressa nei volti delle generazioni che ha voluto fermare per tramandare, perché continuassero, guardandoci, a parlarci, ma sempre con quel pizzico d’ironia che aiuta a vivere meglio: c’è in ogni suo scatto la volontà di indagare sul soggetto, di penetrarne biografia ed emozioni, ma con quel po’ di sarcasmo per cui, alla fine, la solennità è anche farsa.
Ecco, riguardando le foto di Rocco e anche ripensando alla sua filosofia di vita, c’è un modo di descriverlo che mi convince, un modo, se non erro, di napoleonica memoria: solo un passo divide il sublime dal ridicolo.
Mio padre nacque il 24 giugno. Un singolare, lirico, per chi ci crede eterodiretto evento, lo ha fatto rivivere: proprio il 24 giugno di 62 anni dopo nasce Silvia, la sua prima e finora unica nipote.

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