22 aprile 2009

Socialisti e facili censori.


di Gianvito Mastroleo

Presidente della Fondazione G. Di Vagno


Il mestiere del socialista diventa ancor più difficile quando dietro l’angolo spuntano censori senza patente.
Capita così che quando Introna espone perchè per le imminenti elezioni il Partito che ha guidato per anni con puntiglioso (anche personalizzato) orgoglio, ha deciso d’allearsi con Nichi Vendola e i Verdi, gli ribatta a muso duro Magistro che dopo essersi perso lungo sentieri impervi riscopre le origini comuni, socialdemocratiche e saragattiane.
Ma con argomenti che rievocano l’antico armamentario politico degli anni ’50, presentando un ingenuo Introna nelle fauci voraci del «comunista», non lasciandosi neppure sfiorare dall’idea che la scissione consumata da Vendola (umanamente ben più dolorosa e culturalmente assai più impegnativa dei giri di valzer ai quali abitua la cronaca d’ogni giorno, solo per qualche candidatura) avvia un processo che per quanto difficile e impegnativo potrebbe avvicinarlo al Socialismo europeo, il cui Manifesto di Oporto per le elezioni viene condiviso, senza se e senza ma.
Magistro, invece, trascura che la Tradizione più che un feticcio da venerare è una Cultura in perenne divenire e che piuttosto che rievocare i «comunisti mangia- bambini», con più interessante spirito critico, avrebbe dovuto svolgere osservazioni (almeno una) sul progetto politico che Vendola va da tempo elaborando e sul suo recente discorso alla Fiera del Levante che, se non Saragat, certo Michele Di Giesi, che di queste cose s’intendeva, avrebbe applaudito.
Un progetto, sia pure organizzativamente non facile, per una nuova idea di Sinistra, appunto di sinistra: il dramma dell’immigrazione, l’uguaglianza, la giustizia sociale, l’equità fiscale, il lavoro, il Mezzogiorno nella dimensione nazionale, temi trattati da Vendola con efficacia e passione.
Difficile se non disinvolto, dunque, bacchettare il socialista che condivide e s’allea con chi propone questi temi, finalmente prescindendo dal bagaglio ideologico e radicale che alla sinistra e al Paese ha procurato danni irreparabili.
In un comune impegno di rinuncia agli egoismi di parte.
Segnalerei a Magistro che la battaglia per la sopravvivenza della cultura del Socialismo italiano non può continuare usando gli strumenti vecchi e usurati che divisero i socialisti negli anni ’50, nè ancora abusando del “marchio” Socialista per altri fini.
Quella battaglia, essenzialmente culturale e per forza di cose sottratta alle logiche spesso aberranti dei partiti, s’indirizza oggi alla ricerca di nuovi valori, di un pensiero adeguato alla gravità della crisi e alla profonda trasformazione che viviamo, fra le delusioni della sbornia del mercatismo globalizzato e le speranze del ritorno alle regole, e di un sia pur cauto interventismo pubblico.
Le cose, dunque, sono un po’ più complicate di un manifesto sei per tre, e della tattica elettorale uno contro tutti.
Sulla ri-definizione della «crisi del moderno capitalismo» si stanno adoperando Istituzioni non solo italiane, e le Fondazioni che portano il segno della grande storia del Socialismo, alla ricerca del pensiero nuovo che si definirà socialismo, socialdemocrazia, laburismo o in maniera del tutto diversa, ma che certo sarà cosa altra da quello cui hanno tentato d’assuefarci gli ultimi quindici anni: la riorganizzazione della politica, perciò, dovrà attendere che si compia il processo su questi nuovi «fondamentali» (per citare testualmente Vendola).
Né più e né meno di come la pensava Salvemini (1873-1957) quando il 1914 scriveva di «credere ancora nel socialismo che s’organizza, lotta per la fine di ogni privilegio, creando teorie nuove, via via che le antiche sono corrose dalle nuove esperienze, cadendo, rialzandosi, errando, correggendosi, provando, riprovando. Ecco il centro incrollabile della mia fede».
Per allora come, si spera, per l’oggi: non per un posto in Consiglio comunale, ma nel tentativo di uscire da quel terribile tunnel nel quale oggi vivono molti di noi, travolti dal turbine della trasformazione politica che condanna a vivere guardando al futuro come minaccia o paura, più che come speranza: alla quale chiunque educato dal Socialismo non vorrebbe rinunciare.