7 giugno 2009

IN RICORDO di ADA DEL VECCHIO GUELFI.


SALA del COMUNE di BARI
4 GIUGNO 2009



di Gianvito Mastroleo



Qualche giorno fa Vera Guelfi, che ringrazio molto, m’indirizzò un messaggio nel quale fra l’altro diceva: «Sono certa che mia madre abbia affrontato la morte con in mente le note della Internazionale socialista. Per questo mi farebbe piacere avere l'intervento di un socialista vero.»
A quell’invito nessuno avrebbe potuto resistere: pur lusingato, ho osato raccoglierlo riconoscendo l’imparità del compito, non meno consapevole che non è facile riassumere la biografia politica della socialista Ada Del Vecchio che, con la sua famiglia, s’iscrisse al PSIUP già nel lontano 1946, come lei dichiara nel suo manoscritto pubblicato dalla UIL, che di per sé, nel significativo titolo, riassume una storia socialista: Una vita per la democrazia e la difesa dei deboli.
Ada Del Vecchio, perciò, partecipò alla battaglia della Costituente, respirò l’aria del patto democratico tra le diverse culture che s’incontrarono sul principio condiviso della laicità dello Stato, s’impegnò in particolare nella lotta per la parità del voto e i diritti delle donne: la costante del suo lavoro politico e sindacale, durato una vita intera.
La sua educazione fu tutt’uno con la lotta antifascista e con il socialismo: «…. quando avevo cinque anni - lei scrive - ricordo che di sera dopo la mezzanotte i fascisti sul portone di casa fecero bere l’olio di ricino al fratello maggiore di mia madre …. ». L’ingresso nella società politica fu propiziato dall’insegnamento proprio di quel suo zio antifascista, primo vice sindaco socialista nel CLN.
Fu consigliere comunale del gruppo socialista già nel ’47: non subì il fascino della scissione di Palazzo Barberini, ma restò nel PSI, condividendo l’esperienza del Patto d’unità d’azione fra socialisti e comunisti.
In un viaggio di donne antifasciste in Francia, nei primi dell’anno ’50, Ada incontrò un dirigente partigiano molto stimato per la sua intransigenza, anche come dirigente comunista; due mesi dopo lei, laica irriducibile, educata da una Madre che aveva smesso di frequentare Chiesa cattolica dopo l’approvazione dei Patti Lateranensi, sposò quel partigiano, in Comune e con rito civile: per l’epoca, un vero scandalo.
Nel ’50 Ada prese la tessera del PCI, e vi si buttò a capofitto, con grande passione: «io credevo nel partito, dirà testualmente, avrei dato l’anima per il partito, ero un’invasata ed era quella gente a trasmettermi l’entusiasmo … ».
Un errore di valutazione politica che non fu solo suo, anche se il suo gode dell’esimente dell’amore coniugale.
La per il partito passione che le consentì l’esperienza parlamentare con il PCI nel 1953, anche se lei stessa riconosce «….forse sono arrivata troppo presto a Montecitorio …», per riprendere nel 1963 il suo rapporto organico con il socialismo, durato ininterrottamente fino alla fine dei suoi giorni: con un percorso fra politica, ma soprattutto, Sindacato che la vide impegnata sui temi dell’emancipazione e dell’uguaglianza delle donne, da sempre al centro delle lotte e dei programmi del socialismo italiano.
«Il diritto di voto ora concesso a noi donne – scrisse in una relazione manoscritta interamente dedicata ai diritti della donna, che è senza data ma che presumibilmente è a cavallo della campagna elettorale per il referendum Monarchia–Repubblica e per la Costituente, dunque nella primavera del 1946 - è una grande conquista della democrazia e del partito socialista, che per questo si è battuto sin dal secolo scorso».
Torna in mente Anna Kuliscioff che quasi settant’anni prima, alla fine dell’800, in una memorabile conversazione dal titolo Il Monopolio dell’uomo, tenuta al Circolo filosofico milanese (alla quale, come narra la cronaca, parteciparono giovanette e adolescenti addirittura scappate di casa pur di parteciparvi) sostenne che «Il voto è la difesa del lavoro e il lavoro non ha sesso…» e proseguiva con la denuncia che «… fra le cause del servilismo sotto il quale è caduta la donna, il parassitismo di una minoranza di timorate di Dio che non vivono che di frivolezze e di visite in toilette … tutta l’intelligenza e le energie di queste donne è tesa a compiacere all’uomo e la loro arma di difesa è l’astuzia e la finzione, e tutti i sentimenti migliori, sopratutto quello bellissimo ed elevatissimo della maternità, degenerano in grettezza, avarizia e egoismo domestico.»
Il Partito socialista non condivise mai appieno le posizioni della Kuliscioff, per la preoccupazione che la lotta per il voto alle donne potesse prolungare i tempi per il suffragio per tutti gli uomini; ma lei non si scoraggiò, al punto che nel 1911, incurante finanche del carcere che nel frattempo non le era stato risparmiato, costituì il Comitato socialista per il suffragio femminile sostenuto, fra le altre, da Argentina Altobelli, Margherita Sarfatti, Maria Gioia, da Angelica Balabanov e verosimilmente dalla nostra conterranea Rita Majerotti: quella lotta, tuttavia, nel 1912 fu sconfitta dalla legge del Governo Giolitti che accordò il suffragio universale solo al maschile.
«Le donne parteciperanno alla vita dello Stato – scrive fra l’altro Ada, nel già citato documento - perché lo Stato è di tutti e verrà così a cessare il privilegio di cui godevano gli uomini i quali, anche in questo potranno valersi della nostra assistenza e del nostro consiglio.»
Una continuità di pensiero socialista, dunque, tra la riformista Ada Del Vecchio e la rivoluzionaria Anna Kuliscioff, una visione condivisa sul rapporto donna-lavoro e donna-diritti che è stata propria del socialismo italiano: che nulla ha a che fare con un certo femminismo salottiero, qualche volta pseudo rivoluzionario, come fu il pensiero della femminista Anna Maria Mozzoni, una milanese di origini borghesi, che lotta «…. per ideali astratti, denuncia la Kuliscioff, quando le contadine e le operaie sfruttate reclamano un’immediata presa di posizione.»
Non a caso, infatti, Ada Del Vecchio concentrò le sue prime attenzioni di dirigente della sinistra sulla condizione della operaie alla Manifattura dei tabacchi di Bari, curve per ore e ore sul telaio, con la salute esposta agli effetti deleteri dell’aria che respiravano, che nella prime ore dell’alba scendevano a frotte dai treni della Murgia, attraversavano un pezzo della città fino alla vista dell’alto camino della fabbrica barese.
La decisione di Ada di aderire al PCI fu facilitata dal rapporto fra socialisti e comunisti, in quegli anni di vera subalternità, al punto che il Psi, per l’influenza di Rodolfo Morandi, apparve (o qualcosa di più) accettare l’egemonia culturale teorizzata dal Pci, fino ad assumerne la regola del centralismo democratico; ma anche dal suo incontro con Aramis Guelfi, che sarà il suo compagno per tutta la vita.
Nel 1953, l’irremovibile centralismo democratico comunista stabilì la graduatoria di cinque dirigenti per l’elezione in Parlamento che non comprendeva Ada, solo sesta nella lista: ma avendo eletto il Pci sette deputati, a solo trent’anni, lei fece il suo ingresso a Montecitorio.
Nella sua esperienza di parlamentare del PCI, nel 1962, ebbe finanche il tempo di essere sottoposta a giudizio della Giunta per le autorizzazioni a procedere, assieme ai deputati socialisti Lenoci e Scarongella e al comunista Assennato, « … per aver incoraggiato e partecipato a un corteo per le vie cittadine di centocinquanta operai della SAPIC, senza dare comunicazione al Questore … », come imponeva la Legge fascista del 1931.
La militanza di Ada nel PCI non dev’essere stata esaltante, anche per sua stessa ammissione, essendo coincisa con il periodo più tormentato della storia di quel partito e della sinistra italiana.
«Togliatti – lei dirà in un’intervista, con quanta verità nelle sue parole, poi vedremo - era molto abile. Nelle riunioni parlamentari apriva la discussione in maniera interrogativa … ma la strategia era stata già delineata, bisognava seguirlo e basta … »
Ma lei, educata dal Socialismo nel quale la testa di ciascuno è valore irrinunciabile, questo non condivise.
In verità le questioni erano di portata storica: cominciavano a vacillare le certezze sul mito dell’Unione sovietica e sul comunismo internazionale, dunque l’affidabilità del Patto di Varsavia.
Bagliori di protesta operaia e giovanile baluginavano in Polonia e in Cecoslovacchia.
Nell’ottobre del 1956 esplose la rivolta in Ungheria e l’ordine venne ristabilito solo con i carri armati sovietici che la mattina del 4 novembre nvasero Butapest, e trovando un'accanita opposizione soprattutto nei quartieri operai, repressero nel sangue la resistenza anticomunista.
Imre Nagy consegnato ai sovietici fu impiccato in gran segreto nel giugno del '58.
Kadar, a capo di un governo fantoccio, col supporto dell'URSS annientò le sacche di resistenza rimaste nel paese e ristabilì l'ordine comunista.
Un bagno di sangue che costò la vita di migliaia di operai, contadini e studenti.
«L’internazionalismo diviene colonialismo: è spaventoso” annota Nenni nei suoi Diari alla pagina del 24 ottobre.
Quei fatti sconvolsero le coscienze democratiche dell’intera Europa ed ebbero conseguenze per la giovane democrazia italiana, ma l'Unità, organo del PCI, osò scrivere che la rivoluzione socialista aveva il sacrosanto diritto, «guai se così non fosse!», d’intervenire con le armi per sconfiggere i «ribelli controrivoluzionari.»
Palmiro Togliatti, del resto, diede l'assenso all'invasione. In Parlamento il PCI inneggiò all'armata rossa e «alla funzione liberatrice dell'esercito sovietico.»
Ma non tutti nella sinistra la pensarono così.
Massimo Caprara, storico segretario di Togliatti, racconterà vent’anni dopo come andarono le cose fra i comunisti.
Il partito comunista italiano fu in subbuglio.
Mentre nella Direzione Amendola definì l'intervento «un dovere di classe», un'assemblea di studenti della Federazione giovanile comunista di Roma votò all'unanimità un documento di sostegno «al processo di democratizzazione e a quei movimenti che si stanno manifestando in questo senso in Ungheria e che dovranno portare a un socialismo costruito nella democrazia e nella libertà». L'Unità lo respinse, l'Avanti!, organo del PSI, lo pubblicò.
A Milano, un folto e combattivo gruppo di intellettuali, comunisti e non, approvò un documento critico analogo.
Ma la novità più esplosiva venne dalla sede della CGIL, la Confederazione del lavoro con milioni di iscritti. «L'intervento sovietico contraddice i principi che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali e viola il principio dell'autonomia degli Stati socialisti», si legge nel testo votato all'unanimità. Prima firma: Giuseppe Di Vittorio, segretario generale.
Ma Togliatti decretò: «Il documento della CGIL va ritirato. Devi essere tu – impone a Di Vittorio - a correggere la posizione. Lo farai nel prossimo comizio a Livorno, domenica ventura ». «Ma è un comizio sindacale unitario non del partito» dice Di Vittorio. «Meglio», replicò il segretario comunista.
Uscendo, Di Vittorio è fiaccato, stravolto, come la recente, pur bella, fiction non è riuscita a mettere in evidenza. Ha gli occhi rossi. «Che avrei potuto fare? Mi hanno, tutta la direzione, messo clamorosamente di fronte all'alternativa: o il comizio o fuori dal partito. Che farei io, Di Vittorio, senza il partito? Forse non sono già più Peppino Di Vittorio».
Un macigno che singhiozzava, lo descrisse Antonio Giolitti, presente alla riunione della direzione che lasciò il Partito comunista nei giorni successivi e con lui Paolo Sylos Labini, Alberto Asor Rosa, Lucio Colletti, Renzo De Felice, Paolo Melograni, Enzo Siciliani, Natalino Sapegno, che cito uno ad uno, ma non a caso, e altri ancora.
Altri dirigenti lo fecero in seguito, fra cui Michele Pellicani, intellettuale pugliese, e con lui il sindacalista Silvio Cirielli di Acquaviva ed altri, che come Ada scelsero il PSDI (e conseguentemente la UIL) attratti dalla coerenza di Giuseppe Saragat che non aveva condiviso il patto di unità di azione tra PSI e PCI e che verso il comunismo aveva sempre mantenuto la sua avversione.
«La gamma di reazioni nel partito – scrisse Giorgio Napolitano riferendosi a quegli anni nella sua recente autobiografia – fu la più ampia: da un incredulo rifiuto in cui si rifletteva la profondità del mito e del culto di Stalin quali si erano radicati in grandi masse .. ma anche un senso di liberazione per quel bagno di verità e per quello straordinario impulso di rinnovamento.»
In quel frangente al di sopra di tutto emersero le reticenze e quella che passerà alla storia come la doppiezza di Togliatti.
Ne più e né meno di quello che Ada lucidamente aveva già intravisto, quando scrivendo di Togliatti e di «linea tracciata» sostanzialmente denunciò che il suo rapporto con il Pci era ormai in crisi.
E’ certo che sedendo in quei giorni infuocati alla Camera dei Deputati, Ada avesse ascoltato nella seduta del 26 ottobre, dico il 26 ottobre e cioè a poche ore dall’esplosione della rivoluzione, le parole di Riccardo Lombardi che nel suo breve ma lucido giudizio dopo aver alluso al «….. rimpianto per il sangue versato che poteva e doveva essere risparmiato, se un gruppo dirigente avesse saputo non distaccarsi dalle masse e interpretarne la volontà di libertà e di democrazia» rivendicò con fermezza il «principio che il socialismo non può consistere soltanto nella socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche nella socializzazione dell’amministrazione dello Stato e cioè che non vi è socialismo senza democrazia e senza libertà».
E chissà se quelle parole alla Del Vecchio, già idealmente vicina ai fuorusciti dal PCI, che a Bari si accompagnava a Formica e a Di Vagno «come suoi angeli custodi», come è stato scritto, non siano rimaste impresse al punto da farle dichiarare nella sua intervista «sono una lombardiana».
Oggi in Ungheria il 23 ottobre, data di inizio della rivoluzione, è festa nazionale.Il 26 settembre di quest'anno il Presidente Giorgio Napolitano, in visita ufficiale in quella nazione, ha reso omaggio alla tomba di Imre Nagy e al monumento ai caduti della rivoluzione e ha ripetuto quello che aveva già riconosciuto 20 anni fa: «La mia riflessione autocritica sulle posizioni prese dal Pci e da me condivise nel 1956 - scrive il capo dello Stato - e il pubblico riconoscimento da parte mia ad Antonio Giolitti di 'aver avuto ragione' valgono anche come pieno e dovuto riconoscimento della validità dei giudizi e delle scelte di Pietro Nenni e da gran parte del Psi in quel cruciale momento.»
Questo, dunque, l’incubatore della crisi di Ada Del Vecchio con il PCI che si manifestò solo nel 1963 ma doveva essere in discussione da tempo: e per ragioni politiche, non per puntigli intellettualistici, né per altro.
Tutti questi compagni, fra cui Ada, non potettero più accettare una disciplina formale, in pratica la rinuncia a battersi per idee e obiettivi essenziali per il Socialismo, tutt’uno con la Democrazia.
Poi accadono tante cose all’interno della famiglia socialista, con la quale Ada si era riconciliata: l’unificazione del 1966 prima, la scissione del 1969 poi, con la quale lei scelse definitivamente il PSI, tornando alla casa d’origine come già nell’immediato dopo guerra.
Per la sua azione politica preferì il Sindacato, con la stessa determinazione, con la stessa passione che le aveva già fatto dire si sé che amava il partito, …. come un’invasata: ancora una volta, la sua passione s’indirizzò alle donne e al mondo del lavoro, in particolare anziani e pensionati.
Ada del Vecchio, dunque, nel suo percorso politico fu lungimirante sempre.
Quando scelse la militanza socialista, e non da meno quando lei, a sua volta, nel suo piccolo indicò al PCI un corso ineludibile della storia, che il PCI non fu in grado di seguire.
Per questo avrebbe meritato di più di quello che invece le fu riconosciuto. Ma, forse, è stato proprio per questo.
Conta di più, infatti, aver capito più e prima degli altri. E aver saputo cogliere, offrendolo a chi fosse stato in grado di avvalersene, il senso della Storia.
Ma mi sia consentito, per concludere, un accenno alla contemporaneità: Dacia Maraini qualche giorno fa (Corriere della sera 27 maggio) in una lettera a Veronica LARIO denuncia che «sta montando una nuova misoginia fatta di una falsa ammirazione per le bellezze femminili che nasconde aggressività e disprezzo»: sono certo che oggi – se le inesorabili regole del tempo l’avessero risparmiata - Ada Del Vecchio avrebbe combattuto questa stessa battaglia, e si sarebbe trovata ancora una volta dalla parte giusta .