7 dicembre 2011

I giovani del Sud attendono risposte

di Gianvito Mastroleo

La vicenda politica e umana di Giuseppe Di Vagno, il giovane parlamentare socialista assassinato dai fascisti in Puglia il 25 settembre 1921, si consuma nei due anni terribili che procurarono contrasti asperrimi e tanti lutti per la democrazia italiana; lacerazioni interne alla sinistra, lo scontro tra fascismo e movimento contadino e tra fascismo delle campagne e fascismo delle città.. Nel giro di pochi mesi di quel tragico 1921 il giovane dirigente socialista raggiunse l’apoteosi del percorso umano e politico, fino all’incontro con la funesta determinazione di coloro che si abbatterono su di lui consentendogli d’intraprende il cammino nella Storia.Giuseppe Di Vittorio – che solo tre mesi prima aveva condiviso la lotta e le speranze dell’ascesa del popolo dei contadini e dei braccianti della Puglia nella stessa lista del Partito Socialista – accorso fra i primi al suo capezzale, ne descrive la tragica fine con parole struggenti: «Povero il nostro Gigante buono! Si è voluto uccidere in te il forte lottatore [...] come per seppellire un’Idea, per infrangere una Fede, e non si sono accorti, i miserabili, che la soppressione del tuo corpo ha preparato la tua resurrezione. Tu sei risorto. Eri un uomo ed ora sei un Mito. Tu sei sempre con noi, in noi e nelle nostre battaglie e nelle nostre vittorie.» « […] Quel delitto, aprì la strada a una guerra civile che sporcò le nostre terre e interruppe l’ascesa del movimento contadino pugliese […]; il suo sacrificio non riuscì a bloccare il fascismo, ma ci ha consegnato una prospettiva di futuro […]», ha ricordato Formica solo qualche settimana fa, nel cimitero di Conversano. Cancellate le passioni di parte, il sacrificio di Giuseppe Di Vagno “organizzato con la connivenza delle autorità”, scrisse Tommaso Fiore nell’aprile ’44, è ormai patrimonio condiviso.
Di Vagno appartenne alla generazione dei socialisti del riformismo remissivo: a quel “socialismo che diviene” che si batteva per i diritti e le libertà di masse di contadini; che costruiva organizzazioni, leghe, sindacati, luoghi di aggregazione; che formava amministratori capaci di guidare Comuni e di rompere notabilati e clientele; per la secolarizzazione dell’istruzione per consentire l’ “uguaglianza delle condizioni”.Il messaggio consegnato al futuro novant’anni fa appare drammaticamente attuale.L’azione per il riscatto sociale degli esclusi, di cui Di Vagno con la sua ascesa sociale era stato artefice, si ripropone per la società di oggi. Agli inizi del ‘900 per la lotta contro le disuguaglianze gli apostoli della libertà e della giustizia sociale erano sorretti da fede e cultura – il Socialismo o il Cattolicesimo sociale – laddove oggi i valori coltivati in prevalenza sono ben altri.Una famiglia del ceto medio pugliese, dimostrando solo con il proprio lavoro forza, dinamismo e proiezione verso il futuro, un secolo fa era riuscita a laureare a Roma un proprio figlio. Oggi la stessa famiglia vede scivolare il proprio destino verso il passato, è costretta ad affidare ai propri figli anni incerti e declinanti, sente sempre meno il merito come fattore di ascesa e di rinnovamento fra i ceti, vede sempre più pararsi davanti solo una nuova e più crudele emigrazione. Eppure oggi ci sono giovani che escono dalle nostre Università, che si confrontano in faticosi stage all’estero, che hanno voglia e capacità di confrontarsi con l’innovazione, impegnati nel volontariato culturale e sociale, pronti a partire ovunque, per esperienze di lavoro o di studio forti solo del loro sé, e sempre più spesso costretti ad un settimanale pendolarismo da un capo all’altro del Paese.Sono i giovani del Sud, ingiustamente oltraggiato, che attendono che la classe di governo riesca a mettere al centro delle preoccupazioni la loro precarietà, non solo lavorativa. La storia del Di Vagno dell’inizio del “secolo breve”, come quella dei tanti intellettuali meridionali è figlia delle stesse delusioni e delle attese di sviluppo e di giustizia delle masse dei giovani e dei ceti subalterni che alle soglie del XXI secolo, tuttora, attendono risposta.
“Non ignorare di avere nella questione meridionale il maggiore dei doveri di politica interna”, fu il messaggio di un secolo fa di Giustino Fortunato; questione oscurata da chi continua ad illudere che lo sviluppo autosufficiente, ma non solidale, si dispiegherebbe pienamente solo liberandosi del peso frenante del Mezzogiorno.Il novantesimo anniversario di quell’assassinio, in questi giorni fra i più tormentati della storia della Repubblica, si è tuttavia celebrato con la serenità di “pregare perché l’orgoglio per il sacrificio sull’altare della Libertà, riesca a prevalere sul dolore per l’assenza” (Lincoln).