26 ottobre 2007

SOCIALISMO E MEZZOGIORNO


Relazione di ONOFRIO INTRONA
Salerno 20 Ottobre 2007

Le montagne russe nei listini finanziari ha riproposto, ove mai ve ne fosse bisogno, il senso di una economia che è sempre più globalizzata e che coinvolge tutti, anche aree come il Mezzogiorno d’Italia che alcuni vorrebbero relegare a periferia del sistema.

Credo invece che proprio il Mezzogiorno sia al centro di un processo di sviluppo nuovo, se consideriamo le regioni del Sud parte integrante dell’area mediterranea, che vede insieme territori diversi per cultura, religione, sistema economico, e che possono rappresentare un nuovo modello di sviluppo globale fondato sulla pace e sulla collaborazione, precondizione alla coesistenza civile.

Per questo, noi socialisti continuiamo a credere -così come un tempo aveva fatto Salvemini, primo meridionalista nella storia italiana- che il Mezzogiorno, con le sue straordinarie potenzialità, in gran parte inespresse, dovrebbe costituire il motore dello sviluppo economico dell’intero Paese.

Le sue potenzialità inespresse sono rappresentate, solo per fare un esempio, dai bassi tassi di partecipazione al mercato del lavoro delle donne e dei giovani, il cui tasso di occupazione al Sud -17,9%- è circa la metà di quello del Nord. Sono rappresentate dalle tante precarietà, dall’insicurezza sui luoghi di lavoro, dalle trincee dei lavori flessibili, dalla mancanza di alternative programmatiche.

Il Mezzogiorno ha già perso troppe occasioni nella storia recente. Oggi, noi socialisti vogliamo provocare un cambiamento, una inversione di rotta perché il Sud diventi fucina dell’innovazione, non più protesi dell’Italia, ma protagonista del suo futuro.

Mi ritengo un uomo della terra meridionale convinto, ma anche, parte integrante di un processo che ci deve vedere impegnati tutti per un Mezzogiorno che può essere leva di una globalizzazione non subita passivamente ma utilizzata come occasione di sviluppo.

Tutto ciò non vuol dire rinunciare ad un’analisi puntuale per cercare di capire meglio su quali direttrici muoverci sia a livello istituzionale – molte cose sono state fatte dall’attuale Governo e dalle Regioni meridionali nel corso degli ultimi anni – ma anche imprenditoriale e in generale come classe dirigente in tutti i suoi aspetti, cercando di costruire una lettura sistemica e non limitata a questo o quel provvedimento, a questo o quello specifico territorio.

Non voglio tornare ai fasti di un meridionalismo, come “rivendicazionismo meridionalista” che ha contraddistinto per qualche decennio le classi dirigenti del Sud. Credo , infatti, che si debba con chiarezza riproporre al centro di un’azione globale per lo sviluppo del Paese e dell’Europa il tema del Mezzogiorno rivendicando i grandi passi avanti compiuti, le professionalità create, le imprese capaci di misurarsi con i mercati internazionali, una cultura ed una capacità di fare ricerca, talvolta con pochissime risorse, che non ha molti eguali.

E’ il Mezzogiorno dei distretti che tra mille difficoltà sono riusciti a consolidarsi, delle reti culturali e scientifiche; è un Mezzogiorno che non è, e soprattutto non vuole essere, la periferia dell’Europa ma la porta, realmente aperta, verso il Mediterraneo, a Sud come ad Est. E’ un Mezzogiorno che ha una grande ricchezza non ancora pienamente dispiegata, nodale anche sulle nuove vie di trasporto energetico integrative a quelle del Nord del Paese, ma soprattutto che deve essere capace di un suo protagonismo autonomo non sussidiario delle tradizionali roccaforti economiche del vecchio continente.

La nostra mission ma anche la nostra ambizione deve essere quella di confrontarci da protagonisti con uno scenario che è internazionale non solo a parole ma nei fatti come dimostrano i container cinesi a Taranto come a Gioia Tauro, le grandi imprese informatiche presenti in Puglia come in Sicilia, i grandi insediamenti dell’automotive a Melfi come a Bari.

Oggi non si tratta, a mio avviso, di reclamare semplicisticamente più fondi, più risorse, al limite anche solo più attenzione, quanto ribadire come solo un salto di qualità complessivo del Meridione d’Italia consenta a tutto il Paese di essere protagonista dello sviluppo dell’Europa.

Questo salto non è possibile, infatti, solo in singole parti dell’Italia, come se le aree più sviluppate possano prescindere dalle altre.

Del resto, lo stesso presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo ha affermato, qualche mese fa, che “il Sud è interesse nazionale, un tema per il quale è necessario impegno straordinario di maggioranza e di opposizione, ma soprattutto una reale convergenza d’azione da parte di soggetti pubblici e privati. Non può esistere un futuro – ha ribadito Montezemolo – che esclude il Mezzogiorno”.

Sulla stessa lunghezza d’onda –lo sapete bene- il governatore di Bankitalia, Draghi, quando, asettembre, ha detto che una crescita duratura dell’intera economia può avvenire solo con il decollo del Sud.

E’ mia ferma convinzione che se è difficile per l’Italia nel suo complesso riuscire a superare quel guado che ancora non vede il nostro Paese compiutamente tra i leader dello sviluppo europeo, per singole aree questo è assolutamente impossibile.

Né ci si può limitare a pensare ad un Nord trainante di per sè in un processo più generale di sviluppo che sarebbe in grado quasi automaticamente di far crescere il Sud, colmando il gap secolare. Se così fosse, mi chiedo, perché non è avvenuto per l’Italia nel suo complesso nel contesto europeo, con le economie del nord Europa trainanti rispetto a quella dei paesi del Mediterraneo?

D’altra parte, non è chiudendoci nelle singole realtà che si trova la chiave dello sviluppo ma proprio nell’inverso, nella capacità di aprire le frontiere, di legarsi a realtà più ampie, oserei dire in un’ottica che va ben oltre il nostro vecchio continente, guardando, tanto per cominciare, ad un Euromediterraneo che può essere la piattaforma di un mondo diverso, in cui sviluppo commerciale e nuove relazioni economiche si possono tradurre, direi necessariamente, in stagioni di pace in un territorio troppo spesso straziato dalla guerra.

Tra meno di tre anni, infatti, ci sarà in questa parte del mondo un’area di libero scambio che interesserà in particolare le regioni meridionali.

Non vorrei sembravi quasi visionario in questo auspicio, anzi sono proprio i dati che emergono dai recenti rapporti della Banca d’Italia sulle varie realtà regionali e, più recentemente, della Svimez a rendere questa analisi estremamente concreta.

Negli ultimi anni, infatti, il Mezzogiorno ha vissuto una fase difficile che solo recentemente ha trovato una inversione, ma nonostante questo segnale positivo, il gap tra il Sud e il Nord del Paese è sembrato allargarsi rendendo più difficile quel processo di sviluppo che con l’euro ed una Unione Europea sempre più interconnessa non è possibile per singoli Stati autonomi.

Oggi, come dimostrano proprio i recenti avvenimenti e l’altalena delle Borse mondiali, solo l’Europa come soggetto, in questo caso la Bce, è in grado di intervenire con politiche monetarie a livello europeo per far fronte ad una crisi che ha origine nel troppo disinvolto mercato immobiliare americano.

In questa logica credo che trovi ragione anche la franchezza del ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, una franchezza del resto espressa anche in un incontro di qualche mese addietro con gli imprenditori pugliesi quando ribadisce che per far fronte alle necessità infrastrutturali “le risorse per investire non possiamo reperirle indebitandoci”. E che “ora le risorse le possiamo reperire solo spendendo meglio, smagrendo strutture pubbliche ridondanti, spendendo meno in consumi correnti, con una politica di austerità delle retribuzioni pubbliche”.

Il ministro ha parlato di “uno sforzo, uno sguardo lungo, una ambizione nazionale”. E’ su questa traccia che ripropongo qui con forza il tema del Mezzogiorno, senza alcun accattonaggio, ma cercando di insistere sul fatto che senza sviluppo del Sud, se si manterrà quel gap storico, i ritardi infrastrutturali, economici e occupazionali, non ci sarà sviluppo per l’Italia e forse anche per l’Europa, tali e tante sono le interrelazioni.

Questo, peraltro, significa uno sforzo anche da parte di noi meridionali, un rilancio di un orgoglio che non può limitarsi ad un livello campanilistico, ma che deve trovare nuova energia in questo processo generale che significa crescita come classe dirigente, come imprenditoria, come cultura, senza dimenticare il passato ma senza usarlo come alibi per i limiti del presente e per non impegnarci fino in fondo per il futuro.

Allora forse è il momento di parlarsi con franchezza superando gli stereotipi degli slogan ormai prevalenti nel dibattito politico.

Dobbiamo forse dirci che il fisco, più che sulle aliquote, ha problemi a premiare chi punta correttamente allo sviluppo ed a punire chi evade impunemente da troppi anni facendo un danno al sistema economico ed al Paese.

Dobbiamo dirci che investiamo troppo poco in ricerca e formazione per migliore la qualificazione dei nostri giovani che non a caso ormai sempre più frequentemente emigrano dal Mezzogiorno indebolendo il tessuto produttivo che andrebbe, invece, rafforzato.

In termini di cultura d’impresa e di solidità economica penso alla capacità di misurarsi con il mercato finanziario per sostenere lo sviluppo.

E’ necessario avere un’adeguata capitalizzazione anche perché solo strutturandosi meglio, anche in termini di dimensione, le imprese del Sud potranno continuare a crescere e misurarsi col mercato globale.

E’ questa la sfida che abbiamo davanti, immane ma non impossibile.

Senza l’impegno di tutti, senza la coscienza del proprio ruolo, pubblico e privato, il rilancio dei valori ideali che proprio nel Mezzogiorno hanno trovato così forte impulso nella storia, senza la capacità di fare squadra, imprese e lavoratori dipendenti, intelligenze e professionalità, sistema economico, culturale e della ricerca, Nord e Sud del Paese, senza una politica intesa come analisi differenziata dei fenomeni sociali, come spirito di servizio, come presidio di un interesse generale, difficilmente costruiremo un’Italia protagonista dell’Europa e del Mediterraneo.

Soltanto con l’impegno di tutti e con la modernizzazione, dunque, potrà esserci sviluppo. E non c’è modernizzazione che non parta dalla cura del territorio.

Mi riferisco alla difesa del suolo e del paesaggio, all’implementazione delle aree protette, alla riconversione verso energie pulite, ad un piano organico di interventi per il riassetto idrogeologico.

Su tale problematiche ritengo dover fare riferimento sia pure in estrema sintesi, alla difficile e significativa esperienza che in ragione delle mie responsabilità di governo ho maturato sul tema dell’acqua.

E’ noto che la Puglia non ha condizioni di autosufficienza in materia di approviggionamento idrico. Dipendiamo per soddisfare il nostro fabbisogno idrico per circa il 70% dalla solidarietà delle Regioni limitrofe Basilicata, Campania e Molise, l’estate 2007, che sarà ricordata come la più calda degli ultimi 200 anni con temperature record al di sopra della media stagionale con punte sino a 48 gradi, è stato certamente un difficilissimo banco di prova per il nostro sistema idrico.

Infatti se da un lato abbiamo con soddisfazione verificato che – con la sola eccezione per l’incomprensibile e non ancora chiarita vicenda dell’improvvisa interruzione della erogazione idrica alla città di Taranto – il sistema pugliese ha retto.
Dalla stessa esperienza però vengono avanti altre doverose e non è più rinviabili riflessioni che come classe dirigente del mezzogiorno abbiamo il dovere di affrontare.

Il lento ma progressivo processo di desertificazione che ormai da anni interessa una vasta area del Mediterraneo, al cui centro si colloca il Mezzogiorno d’Italia, rappresenterà negli anni futuri una grande sfida.

Inverni caldi e senza neve, stagioni secche e poco piovose, potranno succedersi con maggiore frequenza e quanto accaduto per la Puglia alle prese con invasi che hanno visto prosciugata la loro riserva idrica e con fonti come quelle delle Sele-Calore che per il mancato riequilibrio in conseguenza della assenza di neve o di scioglimento delle nevi hanno visto ridotta la loro portata di 1.500/1.800 litri al secondo, questo scenario potrebbe negli anni futuri interessare anche territori che tradizionalmente sono autosufficienti in termini di approvvigionamento idrico.

A questo proposito, quindi, ritengo opportuno richiamare la proposta elaborata dalla Direzione generale delle Reti del Ministero delle Infrastrutture per un modello più corretto di gestione delle infrastrutture idriche nell’ambito dei distretti idrografici. Tenendo conto, peraltro, che i fenomeni di desertificazione del nostro territorio, come ricordavo, sono reali. Pertanto, non è più derogabile l’interconnessione tra grandi schemi idrici, per poter utilizzare in maniera ottimale la risorsa acqua. Anche perché la normativa attuale (Legge Galli, Intese Stato Regione e Accordo di Programma Quadro), se da un alto ha dato effetti positivi, come, ad esempio, una maggiore attenzione alla risorsa idrica o la separazione dei ruoli tra soggetto istituzionale e gestore; dall’altra, ha ingenerato frammentazioni di competenze, ritardi negli investimenti e nell’attuazione degli interventi coofinanziati con i fondi comunitari.

Pensiamo e proponiamo un patto tra le Regioni del Mezzogiorno per la individuazione di un soggetto di coordinamento: una nuova entità istituzionale – UNA STRUTTURA DISTRETTUALE ACQUEDOTTISTICA – alla quale dovrebbe essere affidato il compito di gestire gli invasi ed i grandi acquedotti esistenti, realizzare e gestire nuove opere infrastrutturali che possano garantire l’accumulo di acqua e nello stesso tempo, l’interconnettibilità dei vari bacini idrografici appartenenti allo stesso distretto.

In questo contesto, acquisterebbe un ruolo rilevante, l’Autorità d’Ambito Ottimale – che avrebbe, tra l’altro, funzioni di controllo nei confronti dell’Ente Gestore del Servizio Idrico Integrato – e l’ Autorità di Bacino che potrebbe supportare le strategie regionali di settore. Attraverso la sintesi “esigenze”, tenendo presente anche i piani di sviluppo agricolo, turistico e industriale, le autorità di Bacino potrebbero definire gli indirizzi strategici per l’utilizzo della risorsa, nonché divenire punto di riferimento della struttura distrettuale acquedottistica.
Al gestore privato, invece, il compito del servizio di distribuzione, reso più appetibile da una riperimetrazione degli ambiti ottimali per garantire una sufficiente economia di scala, da una curva tariffaria sostenibile e da altri provvedimenti che renderebbero l’attività più remunerativa con una seria di ricadute positive.

Non mi dilungherò più sull’argomento, che però meriterebbe un approfondimento magari in altra sede.
Quello che mi preme aggiungere, e poi chiudo, è che lo scopo prefisso e credo anche realizzabile, di queste ipotesi è quello di offrire alla classe politica una soluzione tecnicamente percorribile per un modello di gestione dell’acqua diverso da quello attuale, che certo, complessivamente, non ha dato una grande prova di efficienza.
Si tratta in definitiva di una proposta da porre a base del dibattito politico per raggiungere una soluzione efficace sia dal punto di vista tecnico sia economico e sociale.

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