13 marzo 2010

Che ne facciamo dei partiti «crepati»?

di GIANVITO MASTROLEO
In questi giorni di frenetica campagna elettorale, in particolare per i socialisti, non sarebbe male tenere desta l’attenzione su questioni che vanno al di là della pur sacrosanta ricerca del voto.
Delle dichiarazioni di Nichi Vendola che si leggono oggi (Corriere della sera 12.3 pag.8) colpiscono due affermazioni:
a) Che i partiti sono «crepati»: sì un testuale, poco poetico, crepati;
b) Che per combattere Berlusconi e il suo populismo ci vuole un «anti-Berlusconi, non l’afasia del centro sinistra»; cioè, per quanto Vendola lo neghi, un populismo rovesciato.
Naturalmente si legge anche - e con viva soddisfazione - che secondo l’ultimo sondaggio (prima di un altro silenzio, oltre a quello dell’informazione politica!) la forbice della possibilità della vittoria di Vendola, assieme alle liste del centro sinistra, si allargherebbe.
Bene, anzi benissimo.
Ciò tuttavia non impedisce che si faccia fatica a riconoscere in quelle dichiarazioni il Nichi Vendola impegnato meno di un anno fa nella strenua, ma anche generosa per quanto vana, battaglia congressuale per conquistare la maggioranza del suo partito, Rifondazione Comunista, poi abbandonato.
Domanda: i partiti si «crepano» quando si perde la battaglia, ovvero tali erano già prima, e dunque inutile la battaglia per la conquista? Ovvero tutti si «crepano» solo perché «le enclave, le lobby» solo di quel partito che si voleva espugnare non lo hanno consentito?
Che i partiti siano in crisi era noto da tempo: già da circa un decennio s’era letto il bel volume di Mauro Calise «Il partito personale».
Senonchè, sempre oggi viene reso noto, fra gli altri, un dato ISTAT: nell’ultimo quinquennio l’affezione del popolo del Mezzogiorno alla «politica», più che al leader, cresce in Sardegna, ma non in Puglia.
Da quelle parti, forse, per l’effetto Soru.
E dalle nostre è forse cresciuta solo la malapianta della «politica personalizzata»?
Questioni che non si possono liquidare con una semplice intervista e sulle quali, accanto alla fisionomia che Vendola vorrebbe dare alla formazione cui vorrebbe dar vita, (che potrebbe interessare un arco assai ampio della sinistra) occorre chiamare finalmente a ragionare, e tutti assieme, con diritto di parola condiviso.
Ferma restando - Ça va sans dire - la convinta adesione al Vendola for president sarebbe auspicabile, dunque, che all’indomani delle elezioni si aprisse, innanzitutto fra i socialisti, e poi con Vendola (ma anche con Sinistra ecologia e libertà e con tutta la sinistra) una discussione, che è innanzitutto di teoria politica: se alla crisi sempre più grave e incombente della Democrazia italiana si possa rispondere collocandosi (o per lo meno dando l’impressione) sullo stesso terreno di giuoco di Berlusconi, o piuttosto contrapponendo un’azione convinta per riportarli alla funzione che assegnò loro prima l’Assemblea costituente e poi la Carta Costituzionale con l’art. 49, rimasto inapplicato.
Sapendo che al vero e proprio disfacimento dei partiti, che nessuno osa mettere in dubbio, non si può contrapporre un male peggiore o, nella migliore delle ipotesi, il nulla.